“A PALLINE”
Mario Corcetto
Mi cimento nella descrizione di questo gioco con il duplice obiettivo di rinverdire i ricordi dei miei coetanei, sperando che siano definitivamente fugati i dubbi interpretativi sulle norme di gioco, e per far conoscere ai nostri figli come giocavamo e quanto eravamo versati nell’italica capacità normativa!
Il gioco delle biglie era molto diffuso e praticato dai ragazzi Montecalvesi, soprattutto nel periodo scolastico. Esso era un importante occasione di aggregazione trasversale, che vedeva coinvolti ragazzi di ogni ceto sociale. Generalmente, i ragazzi del “popolo” erano quelli che esprimevano le vere eccellenze, probabilmente perché essendo un gioco che prevedeva un “investimento” iniziale per l’acquisto delle biglie, chi aveva minore disponibilità metteva sempre il massimo impegno nel gioco, pena la sospensione dell’”attività” per mancanza di capitale. Il principale terreno di gioco erano le aiuole della vecchia Piazzetta: sia per la vicinanza agli edifici scolastici (ogni minuto prima dell’entrata in classe e molti di quelli immediatamente dopo l’uscita da scuola, potevano essere impegnati nel gioco), sia per la comodità rappresentata dai cordoli delle aiuole che circoscrivevano egregiamente il terreno di gioco.
Erano diffuse vere e proprie società di fatto tra due o più ragazzi che ad inizio stagione decidevano di giocare “a la parte”, vale a dire si accordavano per evitare scontri diretti, dividere le vincite e fronteggiare con la cassa comune le perdite. Alla costituzione del sodalizio, i soci concordavano e versavano nella cassa comune un tot di biglie che costituivano la dotazione di partenza, da cui si attingeva per praticare il gioco. Allo scioglimento della società, se il bilancio era in attivo, ogni socio recuperava l’investimento iniziale e le eventuali plusvalenze venivano divise in parti uguali. Le alleanze, ovviamente, venivano cercate tra giocatori bravi, per la massimizzazione dei profitti. A meno che il giocatore meno capace non avesse una dimostrata disponibilità di “capitale”, nel qual caso un campione lo accettava come socio, configurando, questa volta, una vera e propria società in accomandita semplice!
Potevano partecipare al gioco 2 o più giocatori senza un limite precisato, tuttavia era preferibile che esso fosse contenuto, per praticità, nel numero di 4 o massimo 5.
Occorrevano una biglia per ogni giocatore, uno spazio su terra battuta, una buca di forma circolare – di circa 5 centimetri di diametro ed altrettanti di profondità – sul terreno di gioco, detta “càccia”.
La caccia generalmente veniva scavata, affondando nel terreno il tacco della scarpa e ruotando il piede, all’inizio del gioco per evitare che quelle eventualmente già presenti potessero portare vantaggio a qualche giocatore che poteva “saperne lu cuóppu”: vale a dire che conosceva tanto bene il terreno circostante la buca da sapere già dove fosse meglio cercare il rimbalzo della pallina per avvicinarsi più proficuamente alla caccia.
Il gioco, suddiviso in manche, consisteva nel “fare” (colpire per escludere) gli avversari, toccandone la biglia con la propria dopo essere diventato “cacciatóre”, ed estrometterli così dal gioco incassando il compenso pattuito (generalmente altre biglie, ma anche figurine di calciatori o, raramente, soldi).
Il gioco aveva inizio con la conta tra tutti i giocatori per stabilire l’ordine di lancio della biglia verso la caccia. La progressione così determinata aveva però valore provvisorio, limitato al solo tiro iniziale per approssimarsi alla caccia; l’ordine vero di gioco era determinato dalla qualità del tiro effettuato: chi entrava nella caccia o vi andava più vicino degli altri, sarebbe stato per tutta la manche il primo a tirare, quello immediatamente più lontano il secondo e via fino all’ultimo. L’ordine di gioco, così, risultava determinato non già dalla sorte, come nella conta, quanto dalla bravura e dall’impegno dei giocatori. Il tiro iniziale si eseguiva stando in piedi ad una distanza
fissata di comune accordo prima dell’inizio della partita. Il tiro era libero, fermo restando il rispetto in avanti del limite stabilito.
Eccettuato il tiro iniziale, la pallina poteva essere lanciata esclusivamente nei modi seguenti:
1. Accosciati (modalità usata ordinariamente):
a. la mano sinistra (o la destra se il giocatore era mancino) veniva tenuta a paletta con il pollice perpendicolare al palmo e poggiata sul terreno con il polpastrello del pollice esattamente nel posto dov’era ferma la pallina da tirare, il palmo disteso in avanti con i polpastrelli delle altre dita che toccavano terra;
b. la mano destra (o la sinistra se il giocatore era mancino) aveva tre dita (medio, anulare, e mignolo) serrate a pugno, il pollice piegato all’interno del palmo con la falangina sotto la falange del medio, l’indice circondava la biglia tenendola accostata alla falange del pollice;
c. la mano che tirava poggiava con la parte inferiore del pugno sul dorso della mano che poggiava a terra;
d. la pallina veniva lanciata in avanti con la spinta della falangina del pollice, fatta uscire di scatto da sotto il medio.
2. In piedi (modalità usata raramente, generalmente per il superamento di ostacoli sul terreno di gioco) sul posto ove era ferma la pallina e con la mano lanciatrice aderente al corpo, all’incirca all’altezza del fianco, con la stessa presa e la stessa modalità di lancio che nel tiro da accosciato.
Terminato il tiro iniziale e definito l’ordine di gara, si iniziava il gioco vero e proprio. Il primo obiettivo di ogni giocatore era quello di entrare nella caccia per diventare “cacciatóre”, qualità che gli dava la possibilità di eliminare gli avversari, incassando il compenso pattuito. Finché non si andava in caccia si rimaneva “passerotto”: tale status consentiva soltanto azioni di difesa.
La pallina del cacciatore aveva la possibilità di colpire l’avversario, sia esso passerotto o cacciatore: il contatto, anche accidentale, tra le due biglie comportava la “morte” dell’avversario colpito, che così era estromesso dal gioco, pagava il dovuto e aspettava la manche successiva. Se due palline si toccavano prima che alcun giocatore fosse diventato cacciatore si faceva “tàzzicu” e bisognava ricominciare tutto daccapo, cioè dalla conta per il tiro iniziale. Non era raro che, per danneggiare un avversario che si era ben avvicinato alla caccia, si cercasse il “tàzzicu” a “schattamijentu” (per dispetto) per annullare il gioco e ricominciare la manche d’accapo. A decidere il tàzzicu volontario, spesso interveniva un tacito accordo tra due giocatori: in questo caso il primo dei due a tirare lasciava cadere la propria biglia in prossimità della linea del tiro inziale, in posizione facilmente raggiungibile. L’altro giocatore poteva cercare, però, il contatto delle due biglie soltanto facendo partire la propria dalla punta del proprio naso e fermo restando il rispetto in avanti della linea di tiro. In pratica, ci si metteva sulla verticale della biglia da colpire mantenendo la propria attaccata al naso, si prendeva la mirava col solo movimento del capo e la si lasciava cadere senza alcun movimento accompagnatorio che potesse imprimerne qualsiasi effetto.
Quando, invece, almeno un giocatore era già cacciatore, il tocco tra loro di due palline di passerotti era ininfluente. Se un passerotto accidentalmente toccava con la propria la biglia di un cacciatore, invece, si “faceva” quindi usciva dal gioco pagando il dovuto al fortunato avversario. Fino alla prossima manche rimaneva spettatore.
Chi entrava nella caccia, sia che fosse passerotto sia che fosse cacciatore, aveva diritto ad un altro tiro, parimenti il cacciatore che “faceva” un avversario. Così, colpendo in testa (‘ngàpu) o di striscio (di zénna) la pallina di un avversario vicino si poteva sfruttare il tiro per avvicinarsi il più possibile all’avversario che si intendeva colpire subito dopo. Sempre che ciò non fosse inibito da esplicito patto (pattu fattu: “ngàpu e di zénna ‘nzi fa”). Se il tiratore non colpiva l’avversario né entrava nella caccia, la mano passava a colui che gli succedeva nell’ordine di gioco.
Al giocatore che entrava nella caccia era data la facoltà di rimanervi fermo per uno o più giri: per esercitare tale prerogativa bastava dire “ci rèstu”.
Anche nella caccia il giocatore poteva essere fatto se l’avversario era tanto abile da “schavarlo” (scavarlo), se era capace cioè di colpirlo, magari tirando in piedi, dentro la buca o anche soltanto di entrare nella caccia, senza necessariamente avere il contatto fisico tra le due biglie.
Se durante la giocata la pallina usciva dalla vista perché finiva dietro un ostacolo (un ciuffo d’erba o in una buca ecc.) era possibile, se non espressamente pattuito il contrario (patto fatto pulizia ’nzi fa! … nun ‘nzi rialza!), far pulizia intorno alla biglia o riempire la buca sottostante per tenerla bene in vista. Ovviamente ciò non era possibile contro chi decideva di rimanere nella caccia invocando il ci rèstu Se durante la sua corsa una pallina toccava la scarpa di un giocatore o di uno spettatore, si commetteva “tacchèttu”: essendo stata fermata la pallina o essendone stata deviata la traiettoria il giocatore danneggiato aveva diritto ad un tiro riparatore, il cosiddetto “tacchèttu e tiru”. Tale tiro, che si eseguiva dal punto esatto in cui si era fermata la biglia dopo aver toccato la scarpa, si compiva in due tempi: il primo consisteva in una spinta, nella direzione voluta, con l’esterno della pianta di un piede tenuto fermo a contatto con la pallina e tutti e due mossi con un colpo secco dell’altro piede, dopo di ciò si eseguiva ex novo un altro tiro con le usuali modalità.
Quando rimanevano in gara gli ultimi due giocatori, questi potevano ingaggiare la sfida del “ci vijeni o ci vèngu”: ogni tiro successivo di ognuno doveva essere diretto contro l’avversario in ogni circostanza ed in ogni luogo senza possibilità di tiri diversivi, quando le condizioni non si reputavano ottimali.
Durante la manche di gioco, generalmente al tiro iniziale e soprattutto quando un giocatore aveva fatto un buon tiro di approccio alla caccia e temeva un tàzzicu a schattamijentu, due giocatori potevano legarsi tra loro con un patto, potevano cioè fare “na cósa”: ciò li rendeva alleati ed escludeva ogni forma di scontro diretto. In pratica lo sforzo di ognuno era rivolto solo verso gli altri avversari. Tale alleanza poteva avere fini concreti, come la spartizione del bottino, o avere solo lo scopo di astenersi dalla lotta diretta. Se i due “alleati” erano gli ultimi a rimanere in gioco potevano, di comune accordo, terminare la manche oppure rompere il patto e giocarsela tra loro. Il patto si estingueva con la chiusura della manche, ferma restando la possibilità di rinnovare il sodalizio alla giocata successiva.
Il giro aveva termine quando un cacciatore aveva “fatto” l’ultimo avversario e rimaneva da solo in gioco. Durante la manche ogni volta che veniva estromesso un giocatore, questi pagava il pattuito solo a chi lo “faceva” senza che nulla fosse dovuto agli altri giocatori rimasti in gara. Poteva così succedere che l’ultimo che rimaneva in gara guadagnasse meno di altri giocatori anche se usciti prima di lui. In pratica, quindi, era raro che, nell’ambito della manche, ci fosse un solo vincitore.
Il gioco testé descritto aveva anche una variante, nota come il gioco del 3 – 6 – 9.
Ferma restando la fase iniziale, del tutto simile alla precedente, esso differiva nella modalità di ottenimento della qualità di “cacciatore” ed in quella di estromissione dell’avversario.
Si diventava cacciatore al raggiungimento del punteggio di diciotto, attraverso l’accumulo di bonus da tre punti, ottenuti entrando nella caccia o toccando la biglia dell’avversario passerotto.
In pratica, entrare nella caccia o toccare la biglia di un passerotto, anche accidentalmente, fruttava al tiratore tre punti ed il diritto ad un altro tiro. La biglia dell’avversario poteva essere toccata ripetutamente, purché dopo ogni tiro le due biglie rimanessero distanziate di almeno un palmo.
Al tiro iniziale, quello verso la caccia per stabilire l’ordine di gioco, se due biglie si toccavano, il giocatore che aveva tirato guadagnava il primo bonus senza, però, poter tirare nuovamente: i punti gli rimanevano utili ma il turno di gioco rimaneva quello derivato dall’ordine fissato secondo la regola citata. Non era previsto, dunque, l’annullamento della manche col “tazzicu”.
Ogni tiro era libero: poteva, cioè, essere rivolto indistintamente alla biglia dell’avversario passerotto o alla caccia, a seconda della convenienza del giocatore.
Raggiunto il punteggio di diciotto si diventava cacciatore e si acquisiva la facoltà di eliminare l’avversario. Se questi era a zero punti, o ne aveva accumulati solo tre, e la sua biglia veniva colpita, egli veniva subito eliminato. Se, invece, aveva almeno sei punti occorrevano due tiri per “farlo”: il primo lo portava a tre punti (indipendentemente da quanti ne avesse), il secondo lo eliminava. Se
non veniva completamente azzerato il suo punteggio, il giocatore poteva ripartire verso la meta del diciotto. Il passerotto che colpiva accidentalmente un avversario cacciatore si riduceva il punteggio a tre se l’aveva maggiore; si faceva da solo se lo aveva pari o inferiore a tre.
Anche per il 3 – 6 – 9 vigevano le stesse regole relativamente al fare “na cósa”, al “ci vieni o ci vengo”, al far pulizia e al “tacchèttu”. Non era possibile, invece, avvalersi della facoltà rimanere fermo nella caccia dichiarando il “ci restu”
La mano di gioco terminava allorquando uno dei giocatori era riuscito ad eliminare tutti gli altri avversari.
Le biglie che venivano messe i gioco, in entrambe le modalità, avevano valore diverso a seconda che si trattasse di palline cinesi o di sfuse: le prime avevano un valore doppio delle seconde e, a seconda che si giocasse “a di doje” o “a di una”, bisognava fare una o due volte l’avversario per portargliela via. La differenza tra la cinese e la sfusa era solo di natura convenzionale: generalmente erano considerate cinesi le palline di colore bianco opaco con disegni di vario colore impressi sopra la superficie e quelle di vetro trasparente con un solo colore all’interno; mentre le sfuse erano anch’esse di vetro trasparente ma con sfumature di vario colore all’interno, perciò ritenute di minor pregio. Le svizzere, palline di vetro monocromatico, generalmente marrone, avevano un valore convenzionale di 10 sfuse.
Mezza sfusa, invece, valeva la “giggiuletta” che era una biglia di diametro minore (circa la metà) di quelle usuali. Mentre “lu giggiulόne”, biglia di diametro doppio di quella ordinaria, non aveva generalmente un valore predefinito e lo si fissava al momento con trattativa preliminare, anche se, in verità, non era molto appetibile: si tirava male, era bersaglio più facile ed era ingombrante nelle tasche.
Il giocatore che perdeva tutte le proprie biglie veniva “scurzu”. Era la peggior onta che potesse capitare ad un ragazzo. Infatti, quando la disponibilità di biglie cominciava ad assottigliarsi pericolosamente, era frequente che il perdente, anche accampando scuse banali, si ritirasse dal gioco e si allontanasse dal gruppo prima della fine della partita.
Espressioni gergali:
Appacià: saldare un debito di gioco con una vincita di pari valore.
Avanzi: ti debbo qualcosa.
Arrubbà cercare di avvantaggiarsi spostandosi verso l’avversario rispetto alla posizione regolare di tiro.
Chichita: colpo secco e violento.
Cinox: (cinese) biglia del valore di due sfuse.
Cirnuto: essere “fatto”, escluso dal gioco.
Jucà a pazzija giocare per passatempo senza mettere nulla in palio
Pallina raspuliente: biglia resa ruvida dall’uso prolungato. Da preferire a quella nuova perché meno scivolosa, più maneggevole.
Pillicciusu: attaccabrighe.
Pirleggia: come chichita.
Scurzu: aver perso tutte le biglie possedute.
Vuttà la manu: cercare di imprimere una potenza maggiore alla biglia accompagnandola col movimento in avanti della mano che tirava.