IL POSTO DELLE ASCE DI PIETRA A MONTECALVO IRPINO
Angelo Siciliano
[Edito 05/09/2005] Una quarantina d’anni fa, usciva nelle sale cinematografiche un film del regista svedese Ingmar Bergman, “Il posto delle fragole”. Lo trovai bellissimo, per i rimandi metafisici e surreali che riusciva a trasmettere. Era incentrato su un maturo professore che, a coronamento della propria carriera, stava per ricevere il premio Nobel dagli accademici di Svezia.
La notte che precedeva la premiazione, egli faceva un sogno particolare: si rivedeva bambino nel luogo degli affetti, dov’era cresciuto serenamente con i familiari. Un posto tranquillo, con un giardino con le fragole. Evidentemente si trattava di un luogo idealizzato. Poi, un carro funebre, trainato da un cavallo imbizzarrito, andava a sbattere contro un lampione. Nella bara che scivolava a terra, e il cui coperchio saltava via nell’impatto, c’era proprio il professore.
Asce di pietra a Montecalvo Irpino
A Montecalvo, io non ricordo che vi fossero fragole in passato. Forse ora le coltivano in serra. Tuttavia, il mio posto delle fragole è sempre stato qui: la Costa della Menola, a scendere giù, fino alla Ripa della Conca. Questa campagna coltivata per secoli, fino agli anni Settanta del Novecento, forse perché condotta a coltura promiscua, con ogni tipo d’albero da frutta, appariva come un eden. Ora è in buona parte abbandonata e selvaggia, e alberi selvatici la infestano e soffocano da ogni parte. Ma è anche un contesto archeologico devastato. Come risulta d’altronde tutto il territorio montecalvese. E nel resto dell’Irpinia non è che le cose vadano meglio.
I ritrovamenti di reperti archeologici, qui sono sempre stati casuali e sporadici. Gli strati, accumulatisi nelle varie epoche, non sono sovrapposti in regolare successione temporale, ma risultano quasi sempre sconvolti e mescolati. E ciò a causa dei disboscamenti, per la messa a coltura della terra, a partire da quando l’uomo, da cacciatore e raccoglitore, scelse di diventare stanziale. L’uso della zappa, poi dell’aratro trainato da muli o buoi, e dei trattori nel Novecento, e ultima l’introduzione di scavatori per il livellamento del terreno e lo scavo di buche per i nuovi impianti d’ulivi o noci, finanziati dall’ente pubblico, hanno portato ad un paesaggio molto diverso da quello preistorico e quelli successivi, osco-sannitico prima e romano poi. E di non secondaria importanza sono l’erosione del terreno e i franamenti provocati da acqua e neve, associati all’intervento umano non sempre corretto e rispettoso dell’ambiente. Anche i tanti calanchi che si vedono in giro, al di là della conformazione del territorio, sono una chiara testimonianza del prolungato dissesto geologico.Nel territorio montecalvese, che io ricordi, non sono mai venuti alla luce reperti preziosi, anche se le leggende narravano del ritrovamento fortuito di qualche vaso interrato, pieno di marenghi d’oro, la saróla cu li mmarénghi, per spiegare un arricchimento di qualche famiglia contadina, che agli occhi della gente appariva come improvviso. Tuttavia va detto, che ogni reperto ritrovato, anche quello in apparenza insignificante, è sempre da considerare importante, perché contribuisce a farci capire chi ci ha preceduto sul nostro territorio e come ha vissuto.
Scoria di fusione
Confesso che l’archeologia, come altre discipline, mi ha appassionato sin dalla giovinezza. Montecalvo, oltre che giacimento di miti, interessanti per l’antropologia culturale, è anche un deposito archeologico molto antico. Differenti reperti si possono ancora rinvenire fra le zolle, fortuitamente, dopo che le piogge hanno provveduto a dilavarli della terra che li incrosta. In questi luoghi di spiriti, janare e lupi mannari, per me l’archeologia, più che un viaggio iniziatico, ha sempre rappresentato una missione di conoscenza, tant’è che per ben tre volte, in questi ultimi anni, “guidato”, ho potuto riscontrare tra le zolle reperti assai significativi: delle asce di pietra e una piccola moneta d’argento del 1714. Non scordo un sogno postadolescenziale, comunque non avveratosi: gioielli antichi parevano essere sepolti presso l’orto di famiglia. A un’attenta verifica, però, non riscontrai alcunché. In quaranta anni ho raccolto tra le zolle un’infinità di reperti: monete antiche, frammenti ceramici, ossi, piccoli dischi, una scoria della fusione dei metalli, reperti litici e in cotto. Tutti rinvenuti sporadicamente, relativi ad epoche differenti, e mescolati come a voler confondere le idee a un ricercatore.
Cuspidi di pietra
Una tomba a pozzetto, dell’età del Bronzo, scavata in una spianata di tufo, contenente lo scheletro di un bambino di pochi anni, fu rinvenuta in località Imbergoli, a li ‘Mbriéuli, alla fine di Via Lungara Fossi. Per me personalmente, però, di grande suggestione e rilevanza è “il posto delle asce di pietra”, perché ci riporta indietro, a un passato molto remoto. Ho sempre seguito con ammirazione l’opera degli archeologi professionisti. Essi scelgono, delimitano, con pazienza e cura, dopo ripetuti sopralluoghi, l’area di scavo. Fanno rilievi fotografici, picchettano, misurano gli strati, calcolano secoli e millenni, scavano procedendo lentamente con piccole spatole e pennelli. Annotano, catalogano ogni oggetto venuto alla luce, immagazzinano rinviando ad un tempo successivo ogni analisi, comparazione e studio.
Asce di pietra
Ma per “il posto delle asce di pietra”, non molto distante da dove scorre un ruscello, questo non è più possibile. Tutto è stato spianato e ripianato dall’attività antropica, e quello che poteva essere un sito preistorico stanziale con capanne, oppure un luogo di bivacco stagionale per la caccia, non è più riscontrabile. Bisogna accontentarsi allora dei reperti rinvenuti, che sono le asce di pietra non levigate, comunque non più nel loro sito originale. Li ritengo degli oggetti straordinari, e dopo qualche anno di studio, dubbi e comparazioni, mi sono convinto che trattasi di reperti del paleolitico, oltre diecimila anni a. C. D’altronde la Starza e Savignano, luoghi dove furono ritrovati in passato reperti della stessa epoca, non distano molto dalla Costa della Menola e Ripa della Conca. Si potrebbe affermare, quindi, che anche il territorio montecalvese, con i suoi boschi e valloni ricchi di acqua e selvaggina, era frequentato o abitato dai cacciatori e raccoglitori del paleolitico.
I dischi di pietra o in cotto sono invece molto più recenti, ma hanno rappresentato per me un vero rompicapo negli anni Ottanta. Li andavo raccogliendo, perché alimentavano la mia curiosità. Ne discussi col compianto Bernardo Bagolini, archeologo, professore di preistoria all’Università di Trento e vicedirettore del locale Museo di Scienze Naturali. Lui li interpretava come dei coperchi di vasetti in terracotta, io invece ero affascinato da un’ipotesi più fantasiosa: li consideravo dei giocattoli antichi, appartenuti a corredi funerari di tombe di bambini, andate distrutte per mano dei contadini. Poi, finalmente uno spiraglio di luce. Dischi simili, denominati tochet, dell’epoca micenea, XIII sec. a. C., si rinvenivano con altri oggetti negli scavi intrapresi nell’isola di Vivara, nel golfo partenopeo. S’ipotizza che essi fossero adoperati come monete. E ancora dischi dello stesso tipo, del IV sec. a. C., nel 2004 li trovavo esposti nelle vetrine del museo di Mozia in Sicilia. Una scoria sporadica, dell’età del Bronzo, recentemente da me trovata, fa ipotizzare che in questo territorio si procedesse alla fusione dei metalli, utilizzando la legna ricavata dagli abbondanti boschi. Ricordo da ragazzo che, nello spoglio terreno coltivato a viti, ci si imbatteva spesso in quelle che all’apparenza sembravano pietre nere spugnose, così differenti dalle altre, che i contadini ammucchiavano con altri sassi e successivamente eliminavano.
Ho riscontrato anche reperti romani del III sec. d. C.
Ho messo insieme molti frammenti fittili, relativi a prodotti ceramici di varie epoche, dal mal cotto della preistoria sino ai frammenti di stoviglie, riferibili al periodo che va dal XVI al XX sec.
Molte le monete antiche ritrovate, risalenti al XVII sec. e a quelli successivi, e anche medagliette in bronzo, con immagini di santi, sicuramente più antiche.
Concludendo, si può dire che tutti questi reperti non sono certamente preziosi o eclatanti, come quelli che si ammirano nelle vetrine dei musei della Magna Grecia. D’altronde, questa terra non fu mai colonia greca. Qui vi erano gli Opici che, fondendosi con i Sanniti, che avevano conquistato la Campania intorno al 600 a. C., diedero origine agli Osci od Oschi.
Tuttavia, senza presunzione alcuna, ritengo che questi reperti, per quanto poveri possano apparire, hanno un’importanza oggettiva non trascurabile. Aggiungerei che essi assumono quasi un valore affettivo nei confronti dei nostri progenitori, anche quelli più antichi, e ispirano un senso d’appartenenza a questi luoghi che, osservati dall’esterno, paiono abbandonati da Dio e dagli uomini. [Nativo]