LA MALVIZZA – INTRODUZIONE
Mario Sorrentino
La Transumanza, le Bolle, il Grano
[Ed. 00/00/0000] Nell’introdurre questa parte prima, e di riflesso l’intero scritto con il quale Alfonso Caccese ed io abbiamo voluto tracciare in grandi linee la storia della contrada Malvizza del nostro paese, sento di dover chiedere scusa di una libertà che sto per prendermi. Sta di fatto che mi servirò come Incipit di un testo il quale per certi versi contrasta con lo stile ed il taglio formale che di solito si adoperano in scritti di genere storico.
Stiamo, in effetti, perseguendo un progetto graduale con cui vogliamo valorizzare di volta in volta una contrada del nostro paese [1], mettendo in rilievo e divulgandone gli aspetti del passato che siano oggi ancora validi e, magari, fattori di arricchimento culturale e civile anzitutto della contrada, come pure dell’intera comunità paesana.
So che è molto difficile far provare ad un estraneo un qualche interesse verso certi luoghi fuori circuito, e, ancora di più far credere alla particolare suggestione che promana da essi, anche se gli abitanti del posto pensano che siano stati importanti, mettiamo, anche per la storia dell’intero Paese. Perciò, io ho pensato, meglio, mi sono sentito costretto a ricorrere ad uno stratagemma per dare una buona scossa agli indifferenti, anche a costo di passare per immodesto: riportare proprio all’inizio uno scritto che potrebbe essere ritenuto di taglio incongruo perché para-letterario. Si tratta, in breve, di un sogno ad occhi aperti [2] da me fatto nel visitare il sito archeologico di Aequum Tuticum, il quale si trova vicino ma, per la verità, al di fuori del confine amministrativo della nostra contrada Malvizza; anche se, è ovvio sottolinearlo, Aequum Tuticum era un tempo un punto di irraggiamento politico – culturale non soltanto per la nostra contrada ma anche per un vastissimo territorio, essendo probabilmente stata quella città una delle diverse capitali federali del Sannio antico.[3]
Questo sito, benché sia oggi abbandonato all’incuria conseguente a lavori di scavo portati avanti con nessuno o scarsissimi finanziamenti, può suscitare in chi lo visiti (per il silenzio in cui è sempre immerso, la solitudine e la piattezza vasta del terreno aperto su un panorama di monti che chiudono in grande lontananza l’orizzonte) un rapimento della fantasia che credo possa compararsi con quello provato da me, durante un pomeriggio di novembre di qualche anno fa, a pochi minuti dal tramonto.
Le uniche cose che rompevano la linea piatta dell’orizzonte erano una grande quercia e, poco più in là, le due tettoie sconnesse degli scavi archeologici che ero venuto a visitare.
Vedevo arrivare gente da ogni direzione e anche drappelli di cavalieri tra nuvole di polvere. Più lontano s’indovinavano carrette cariche di donne e bambini. Gli stridii degli assi e lo sbattere delle ruote sui sassi giungevano a ondate sulle folate del vento.
Tra le zolle compatte di terra scura della piana biancheggiavano frammenti di pietra. Un altro spruzzo di colore era dato da schegge di tegole e mattoni. Mi chinai e raccolsi una di quelle schegge, tra le più vicine al bordo del campo. Stavo percorrendo la striscia erbosa lasciata a lato dell’aratura dal trattore, cercando di evitare i pani di terra che erano rotolati sull’erba. La terra e l’erba erano inzuppate di pioggia ed anche la scheggia che esaminavo senza scoprirvi niente di interessante era tutta imbrattata di fango appiccicoso. La striscia d’erba puntava diritto verso una piccola altura distante qualche centinaia di metri. Era un piccolo poggio sassoso quasi interamente coperto di rovi. Le pietre che affioravano dal roveto erano dello stesso tipo di quelle sparse nel campo: pietre da taglio servite sicuramente come materiale da costruzione, rimosse chissà quando a formare il poggio e poi rimaste sepolte sotto la copertura vegetale.
Aggirando questo piccolo rilievo, ne scoprii un altro di formazione naturale e più alto. Aveva i fianchi di roccia arenaria ed era coronato da piccole querce.
Dalla cima di questa altura si vedeva la macchia chiara dell’antico abitato disegnato distintamente dai frammenti di pietra disseminati nel campo arato che faceva da sfondo. L’area protetta dalle tettoie era soltanto una piccola parte di quell’abitato ormai sepolto.
Tenevo quel pezzo di laterizio in mano, mentre dalla porta orientale della città vidi salire verso l’altura gente armata di scuri, bastoni, roncole e picche che portavano alte sulle loro teste. Accanto a me c’era un palco di tronchi d’albero, una specie di altare. E intorno all’altare alcuni anziani.
In mezzo alla folla che veniva verso l’altura spiccava una fila compatta di giovani vestiti di bianco. Questi giovani arrivarono per primi ai piedi dell’altura dov’era un recinto chiuso da teloni bianchi come le loro vesti. I giovani entrarono tutti nel recinto e la folla li circondò subito da ogni lato, e per un po’ li sommerse di urla e strepiti. Quando si fece silenzio, gli anziani uccisero sul palco un maiale, che strillò nella breve agonia tale e quale un uomo colpito a morte. Raccolsero il sangue in alcune ciotole e aprirono il ventre alla vittima. Il più vecchio dei sacerdoti infilò un braccio sino al gomito nel corpo dell’animale e cominciò ad estrarne dei festoni di viscere, che esaminava attentamente prima di arrotolarsele intorno all’avambraccio.
L’operazione proseguì per un po’ nel più grande silenzio. Ma presto crebbe un mormorio d’impazienza nella folla. Allora altri due anziani affiancarono il vecchio e dopo poco l’operazione delle viscere venne portata a termine. A questo punto l’anziano che aveva officiato si fece sull’orlo del poggio e con voce stridula di donna vecchia urlò delle parole che le folate del vento dispersero intorno. Squarci di qualche formula rituale, probabilmente, perché la gente continuava a mormorare impaziente. Alcune facce si voltavano a guardare verso un fronte compatto di nuvole nere che da un po’ stavano avanzando da settentrione. All’interno dei cumuli più densi saettavano ogni tanto le strisce seghettate dei lampi, senza che si udissero i tuoni, sommersi dal vocio agitato della gente.
Poi i giovani vestiti di bianco cominciarono a salire sull’altura, l’uno dopo l’altro. Giungevano davanti all’altare, ognuno di loro si inginocchiava e a quel punto uno degli anziani gli macchiava il petto usando una frasca inzuppata nel sangue della vittima. Il giovane che era stato così segnato si alzava e voltandosi verso la folla mostrava il petto insanguinato. Ogni volta dalla folla si alzava l’urlo insopportabile delle donne, nel quale non capii se si nascondesse un incitamento, uno scongiuro o un lamento.
[1] – v. la nostra precedente pubblicazione sulla contrada Tressanti: A.CACCESE – M.SORRENTINO, La Comunità romana di Tressanti, edita in proprio, Bologna, 2004.
[2] – Un sogno, alla stregua di quanto faceva Augustin Thierry per la storia dei Merovingi che ricorreva a narrazioni anche di tipo letterario, per supplire evidentemente alla rarità dei documenti per l’epoca da lui studiata, evocandone atmosfere e psicologie. (V. Récits des temps mérovingiens, Parigi, 1840).
[3] – Come attesta il termine osco tuticum, da touto “popolo”. Ma v. E.T.SALMON, Il Sannio e i Sanniti, Torino, 1985, p. 84. [Nativo]
[Bibliografia di riferimento] [Sorrentino M./Caccese A., La Malvizza – La Transumanza, le Bolle, il Grano, edito in proprio, Bologna, 2005]