AMORE ROMANTICO AL TRAPPETO
Mario Sorrentino
[Ed. 21/06/2008] Redatta la scheda informativa precedente per motivi di copyright, mi piace presentare un altro brano del romanzo di Louis A. De Furia, con la speranza di fare cosa gradita agli amici di Irpino.it . Vi si narra di un colpo di fulmine scoppiato giù al Trappeto, verso la metà del XIX sec. tra il mio bisnonno da parte materna Placido De Furia, originario di Ariano, e una bella ragazza del Trappeto, Anna Di Florio, figlia di Antonio, destinata a diventare poco dopo mia bisnonna.
L’ambiente umano del racconto non riguarda la classe dei contadini, che costituiva la stragrande maggioranza degli abitanti del Trappeto, ma quella dei piccoli commercianti e degli artigiani (i masti), spesso imparentata con la precedente, anche se, detto senza nascondere ipocritamente la verità, da quella classe bistrattata gli altri prendevano le distanze. Nel brano questa verità viene un po’ nascosta dalla ricostruzione fatta in ambiente di emigrazione, in cui si è sempre stati portati, per ragioni ben note, a vantare origini non umili, spesso edulcorandole alquanto. Quanti emigrati di seconda e terza generazione, in America o in altri paesi, ammettono tranquillamente che i propri ascendenti scapparono dai paesi di origine perché morivano di fame?
Agli amici del Forum che rivendicano con orgoglio l’origine trappetara, dico che anch’io ho un legame con quel nostro sventurato quartiere, oltre che per motivi di attrazione estetica e di interesse per la nostra cultura tradizionale più autentica, anche per un legame di ascendenza familiare che ho scoperto di avere soltanto leggendo il romanzo del cugino Louis De Furia.
Informo inoltre che i brani tradotti in precedenza sono reperibili con ricerca libera in “Cultura e Tradizioni” del precedente sito di “Irpino.it”, curato da Alfonso Caccese.
“Una fredda mattina ventosa, sotto un cielo coperto, Minguccio Tedesco e il suo apprendista scendevano per Via Monte con destinazione il Trappeto. C’è da scommettere che avrebbero preferito entrambi restarsene a casa al caldo. Camminavano in silenzio, tenendosi strettamente avvolti i vestiti addosso, per ripararsi dal vento che s’infilava ululando tra i palazzi ornati di stucco. Camminavano in fretta rasente ai muri, cercando di trovare un po’ di protezione dal vento pungente. Le folate divennero più insopportabili e Minguccio si ravvolse meglio che poté nel largo mantello di lana, tirandoselo davanti alla faccia…
Andavano a casa di don Antonio Di Florio per un lavoretto di favore, giù al Trappeto, una passeggiata non proprio corta. Di Florio aveva chiesto a Minguccio se andava a trapanargli il coperchio di una botte nuova di quercia per il vino e istallarci lo zipolo. “Ha scelto proprio una bella giornata per chiedermi il favore,” si lamentò tremando dal freddo Minguccio. Non sarebbe certamente sceso lui nella fredda cantina scavata nel tufo. Un bel guadagno ci avrebbe ricavato dopo quella gelida passeggiata. Era perciò contento di essersi portato dietro l’aiutante. La cantina sarebbe spettata a Placido. A lui, Minguccio, spettava il posto di comando accanto al camino acceso…
Raggiunta la casa ed esaurite le battute di spirito con Antonio e sua moglie, Minguccio attaccò con la recita seriosa del mastro che istruisce l’apprendista su dove fare il buco per lo zipolo. Nel frattempo non trascurava di rassicurare don Antonio, dicendogli che nutriva una gran fiducia nel suo discepolo perché conosceva abbastanza bene il lavoro. Si trattava, per la verità, di una cosa ridicolmente facile. Però Minguccio continuava lo stesso a dare le sue istruzioni rivolgendosi a chi voleva ascoltarlo; “Calcolare l’altezza giusta a partire dal fondo della botte è un compito che richiede grande maestria,” diceva con tono d’importanza. E continuava: “Bisogna saper stimare l’altezza della posa del vino nella botte, in modo che non venga estratta con il vino chiaro”. Una banalità stupida: la posizione dello zipolo non cambiava da secoli. Ma facendo finta che fosse un’osservazione giudiziosa, Placido e don Antonio assentirono con la testa. Dopo qualche attimo, parlando sottovoce Minguccio disse al compagno di lavoro: “Io ti aspetterò qui a scambiare qualche chiacchiera con don Antonio e, chissà, a bere un bicchiere.”
La casa di don Antonio era a un solo piano con la parte interna confortevolmente incavata nel fianco del monte. All’origine una semplice grotta, che tre generazioni e forse più di Di Florio avevano pazientemente ingrandita nei mesi invernali scavando nella montagna. E i blocchi di tufo ricavati dallo scavo avevano utilizzato per allargare la costruzione esterna.
Don Antonio avrebbe potuto vivere in un posto “migliore” ma nella zona c’erano altre case–grotta e ci viveva gente alla quale si sentiva molto legato. Inoltre, le grotte avevano una temperatura fresca e costante adatta a conservare il vino…
Oltre a questa casa, don Antonio possedeva un podere grande in contrada Magliano, nella quale la famiglia si trasferiva dall’inizio della primavera sino a tutta l’estate per i lavori dei campi…
Entrando dall’unico accesso esterno, ci si veniva a trovare in una cucina semplice dove il fuoco era sempre acceso nel camino per attenuare il freddo dei muri a secco e naturalmente per cucinare. Al centro, una pesante tavola di legno, sedie impagliate e una panca a uno dei lati al camino. Un buon posto per sedere a contemplare le fiamme, risistemare i propri pensieri, oppure seguire la preparazione dei pasti in pesante pentole di rame. Utensili prodotti localmente dal fabbroferraio masto Lanza a colpi di martello…
Andando oltre la cucina, ci si imbatteva nel letto dei genitori e in due grandi ceste per il bucato. Una cesta per i panni puliti e ripiegati in un qualche ordine, e l’altra per quelli da lavare. Ancora più in fondo nel fianco della montagna, si trovava un grande arcone, un cassone di zinco con dentro un divisorio per conservare senza mischiarli grano e granturco. A separare l’abitazione vera e propria dal resto c’era un divisorio di legno. Oltre questo, si apriva la cantina, dove don Antonio vendeva all’ingrosso il vino; e qui si apriva anche l’ingresso che portava giù alla grotta del vino con scalini intagliati nel tufo.
Piazzate su una bassa piattaforma di roccia, c’erano qui una dozzina e più di botti segnate con strane scritte con il gesso, secondo un codice a uso di don Antonio per registrare l’annata, la qualità e i vari prezzi…
Sceso giù per i gradini, Placido scrutò verso il fondo più buio della grotta del vino aspettando che gli occhi vi si abituassero e potessero vedere oltre il ristretto circolo di luce della lucerna a olio che portava con sé. Spazzata via la polvere dal fondo della botte ancora chiara che l’aspettava, cominciò a trapanarla. Fissò con cura la punta del trapano e intaccò il legno…
La botte poteva contenere circa 550 litri…
Il foro fu completato con pochi altri giri del trapano, ma conoscendo Minguccio, sapeva che avrebbe dovuto perdere ancora tempo. Si guardò in giro per trovare qualcos’altro da fare…
Cavò di tasca dei chiodi e fissò al fianco della botte delle zeppe di legno duro che servivano a tenerla ferma…
“Ecco fatto, un lavoro che se ne starà bello e sicuro, come un pugno di monete nella tasca del prete”, disse a alta voce, mentre cercava in giro un bicchiere. “E’ un lavoro che mette sete.” Bicchieri non se ne vedevano, ma c’era una caraffa capovolta sulla pancia di una botte lì accanto… Era una colpa lieve, ragionò, servirsi da bere da solo: don Antonio non avrebbe mai negato a un lavoratore uno o due bicchieri del suo vino…
Intingendo il dito nel vino della caraffa, lo annusò e l’assaggiò… sedendo poi sulla piattaforma delle botti, mandò giù un paio di sorsate e si accorse che la caraffa conteneva più vino di quello che aveva pensato. Se l’accostò alle labbra e lentamente la svuotò. Sarebbe stato un peccato sciupare questo vino…
Prosciugò e rimise al suo posto la caraffa, si asciugò la faccia e le mani con il fazzoletto, ripose gli attrezzi nella borsa e risalì.
Appena su, gli chiesero di accompagnare in cantina Anna, la figlia di don Antonio che era arrivata mentre lui stava trapanando la botte. Don Antonio le aveva chiesto di portare su un’anfora di vino nuovo…
Placido reggeva la lucernetta precedendo la ragazza nella discesa e girandosi ogni tanto di lato per illuminare uno scalino alla volta, quando rimase trafitto dal particolare della gonna sollevata. Senza che lei ne fosse cosciente, ma con un effetto estremamente provocante, le si vedevano le caviglie bianche e morbide…
Prima in cucina fu contento della presenza di quell’amore di ragazza. Sapeva che don Antonio aveva una figlia, l’aveva anche vista una o due volte traversare la piazza insieme alla madre, ma ricordava una ragazzina, una bambina, non quella ragazza in pieno sboccio…
Rispose: “No, non sono legata a nessuno” e scoppiò a ridere messa in difficoltà dalla pazza proposta di Placido di volerla sposare.
Intanto di sopra, Minguccio, che era a secco, si preoccupava per quel ritardo, immaginando Dio sa che cosa. Poteva mai essere che fosse colpa del suo aiutante? Mannaggia, don Antonio non gli avrebbe certo riempito ancora un altro bicchiere di vino mentre si aspettava quello nuovo… [Nativo]
[Bibliografia di riferimento]
[De Furia A.M. – De Furia L.A.,The road from Ariano Irpino, Rubicon Prt. Co., Livingstone (New Jersey- USA), 2002]