• Editoria,  Fascismo,  I confinati,  Il nostro passato,  Storia

    DAL FASCISMO AI COMMISSARI CIVICI

    LA MEMORIA RESTITUITA

    È il primo volume della serie “La memoria Restituita”, la cronistoria dal 1920 ad oggi di un paese interno della provincia di Avellino. Proprio per questo “isolamento” il paese fu scelto per l’internamento di tanti oppositori sloveni. In questo volume sono state inserite schede dettagliate di quelle sfortunate persone ricostruite grazie alla collaborazione della figlia di un internato: Bogomila Kravos di Trieste. Non solo. Si riscoprirà il modo di vivere dei residenti durante il fascismo e nel dopoguerra. Il progresso sopravvenuto. I personaggi che emersero col regime mussoliniano. Si verrà a conoscenza di un professionista eccelso, il montecalvese On. Gustavo Console che fu ucciso dagli squadristi a Firenze, per le sue idee contrarie. Si verrà a conoscenza della nascita dei partiti politici e delle lotte proletarie. È inserito anche l’eroico gesto di un maresciallo dei Carabinieri, Gaetano Nastri che, per salvare dalla fucilazione da parte di un sottufficiale tedesco nel periodo dello sbandamento post armistizio, facendo scudo con il proprio corpo, ammazzò il teutonico salvando tante vite umane.
    [Crediti│Il testo è tratto dall'Abstract del volume]

    Redazione

    [Bibliografia]
    [M.Aucelli, Dal fascismo ai commissari civici, Irpinia Libri, Monteforte Irpino AV, 2011]

  • Beni,  Beni etno-antropologici,  Cultura e tradizione

    Il Costume tradizionale “La Pacchiana”

    Il tipico costume femminile montecalvese prende il nome di “Pacchiana”. La sua unicità è rappresentata dal fatto che esso è sopravvissuto all’assalto dei tempi senza diventare il “relitto” di una società scomparsa, ma ancora quotidianamente indossato dalle donne del luogo. Originariamente esistevano due versioni dell’abito: quella giornaliera (piuttosto semplice) e quella delle grandi occasioni. La seconda, in particolare, si presentava molto particolareggiata, con lunghe mutande ornate da un merletto lavorato a “puntina” e calzettoni di una calda lana nera. Sulla camicia di mussola bianca, abbellita da iniziali rosse a “punto a croce” e da un fine merletto giallo, troviamo un gilet, dai vari colori, ed un corpetto nero che serve a reggere le maniche . Un “mantesino” (= grembiule, dal latino “ante-sinum”), ricamato con fili dorati, arricchisce la gonna di velluto o di raso plissettata, lunga fino al ginocchio, ma che nel corso del nostro secolo si è sempre più accorciata. Le scarpe, adornate con le “capisciole” (piccoli nastri), potevano essere di varie tinte. Il costume si componeva anche di un copricapo, che variava a seconda dei giorni: in quelli festivi si usava “la pannuccia” (molto larga e con una frangia che finiva col coprire tutta la schiena), mentre quotidianamente venivano utilizzati il “maccaturo” o la “tovaglia”, ricamata “a spugna”. L’oro costituiva un elemento fondamentale del costume. Era, infatti, stabilito che l’abito non poteva essere indossato qualora non fosse abbellito dalle preziose “tre file di oro a cocole”, dal “pungolo” e dalle “sciacquaglie” (orecchini pendenti). Le prime erano collane a triplo giro lunghe fino al seno, formate da piccole sfere a forma di “cocole” (vocabolo tipicamente dialettale con il quale si designano i frutti delle querce). Lo “spungolo”, invece, era una sorta di spillo che serviva a mantenere legati i capelli al copricapo e, eccezionalmente, poteva essere anche d’argento. La “pacchiana” poteva essere sia da lutto che da nozze. Quella da lutto era caratterizzata da un corpetto e da un copricapo di colore nero, mentre l’altra si contraddistingueva per la presenza della “scolla” (un lungo mantello in seta, bianco o celeste, che si estendeva sulla schiena), dei fiori d’arancio tra i capelli arricciati con la “castagnola” e per l’assenza del copricapo.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - G.B.M. Cavelletti / dal Calendario "Ieri Oggi"]
    [Correlato nel SITO]

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]

  • Beni,  Beni artistici e storici

    Il Murale di via P. Marciano Ciccarelli già via Maddalena

    Il murale, a soggetto unico è tra i più grandi in Italia, ricopre il muro di cinta dell’antico bosco dei frati minori, che si estende per 510 mq. L’opera illustra le vicende della comunità montecalvese dalle origini fino alla seconda metà del 1600 ed è stata realizzata, con uno splendido intreccio tra mito e storia, dagli artisti Lavinio Sceral, Lello Sansone, Michele Giglio e Renato Criscuolo, coordinati dal critico d’arte Maria Russo. La prima figura mitica rappresentata è lo ” scazzamariello”, un dispettoso folletto che, secondo la tradizione popolare, ha il potere di defecare oro. Altro soggetto è la “pacchiana”, cioè la donna con il tipico costume montecalvese, simbolo di una civiltà scomparsa o, comunque, profondamente trasformata (cfr. scheda 13 del comune di Montecalvo Irpino). Ancora, si scorge la rocca romana, sorta durante le guerre sannitiche e destinata a diventare il castello di Montecalvo. Sono inoltre rappresentate la dea Mefite e le leggendarie Janare (streghe). Queste ultime, in piena tempesta, si radunavano per danzare intorno al famoso noce di Benevento, recitando la formula magica : “sott’acqua e sott’a bbientu sott’a la noce di bbinivientu” (sott’ acqua e sotto vento sotto il noce di Benevento). Un’altra scena è ambientata in contrada Malvizza : qui un oste malvagio serve carne umana ai malcapitati avventori e Satana, concorrente nel male, o Cristo, sdegnati da tanta efferatezza, inabissano la taverna nelle viscere della Terra da dove sarebbero sorte le malefiche bolle. Un altro soggetto del murale è la terribile peste che si abbatté sull’intero regno di Napoli nel 1656. Il viaggio tra la Storia ed il Mito di Montecalvo si conclude ad Oriente : “le esperienze guerresche degli antichi crociati e l’arrivo della cultura araba, filtrata nelle esperienze dei Pugliesi immigrati a Montecalvo dopo la peste del 1656, si tramandano in segni di pietra scolpiti sui noti portali che la magica lanterna di Aladino trasforma in un dolce paesaggio orientale”. Infine, l’opera si conclude con un portale che si apre al futuro, segno cioè che la storia continua. Tutte le scene rappresentate sono unite da un tappeto rosso volante.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale] [Correlato nel sito]

    Giovanni Bosco Maria Cavalletti

    [Bibliografia di riferimento]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]

  • Cronaca,  Sport

    Il nuovo campo di Padel

    Montecalvo Irpino AV – Manca davvero poco per vedere completato il nuovo campo da Padel in costruzione in via Padre Marciano Ciccarelli, adiacente al campo di calcetto. Si tratta di uno sport che, negli ultimi anni, ha suscitato un interesse sempre più crescente, appassionando persone di tutte le età. Il Padel, di derivazione tennistica, nato per pura casualità in Messico nei primi anni sessanta del 1900, si pratica con una particolare racchetta dal piatto rigido, da cui deriva il nome Padel = Padella.

  • ASPETTI ANTROPOLOGICI CULTURALI,  Cultura

    Il Malocchio

    L’ “esorcismo degli occhi” è una forma superstiziosa di tradizione, tuttora praticata, che consiste in una serie di operazioni da eseguire per togliere il malocchio alle persone che se ne considerano affette (il malocchio si instaura con lo sguardo di determinate persone che hanno questo potere occulto). Il presunto malato, che generalmente avverte mal di testa come prova del “male” che lo ha colpito, preliminarmente si fa il segno della croce. La persona addetta ad eliminare il malocchio provvede innanzitutto a verificare se il malocchio effettivamente c’è, versando tre gocce di olio in una scodella d’ acqua con la punta di un dito: se le gocce si allargano espandendosi il malocchio effettivamente c’è. Allora si tracciano tre segni della croce sul capo del paziente pronunciando la “formula magica”: “Tre santi hanno visto, tre santi hanno trovato, io arreccomanno a Maronna addolorata, io arreccomanno a Santo Rafaele, n’ ata vota isso com’ era. Ttù a l’ uocchi!” (Sputando dopo l’ imprecazione). L’ operazione si ripete tre volte, svuotando la scodella di acqua una volta dalla finestra, una volta dalla porta o dalla finestra, l’ ultima volta sulle ceneri del focolare. Dopodiché il malocchio è eliminato.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - Google Maps]

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [E. Venezia Atripalda: vita contadina nella valle del Salzola, Assessorato ai beni culturali, Atripalda AV, 1986]

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI

    L’ospedale di S.Caterina

    L’ospedale di Santa Caterina dopo il restauro del 2011

    L’ospedale di S.Caterina sorse nel XIII secolo per volontà degli armigeri che, di ritorno dalla Terra Santa, lo costruirono addossandolo direttamente alla cerchia muraria. L’ospedale fu eretto accanto all’omonima chiesa, non più esistente, fondata alla fine dell’ XI secolo dai Crociati montecalvesi di ritorno dalla Terra Santa. L’esistenza, già a quell’epoca, di un ospedale è stata interpretata come segno del notevole livello raggiunto dalla società di Montecalvo, ove pare che si svolgesse una fiera intitolata anch’essa a S. Caterina e svolta nello stesso luogo. Più tardi sorse anche un altro ospedale, quello dell’Annunziata, ubicato fuori dalle mura. Nel 1518, grazie al conte Sigismondo Carafa, l’Ospedale e la chiesa di S. Caterina furono affidati a Felice da Corsano, religioso locale nonché fondamentale figura nella storia dell’Ordine Agostiniano. Un documento del XVII secolo rende note la quantità e la funzione degli ambienti che componevano l’ospedale, tra cui una stanza adibita a carcere, un’altra con grotta adiacente, due dormitori, otto celle oltre ai locali di servizio. L’Ospedale di S. Caterina è attualmente ricordato attraverso i suoi ruderi che mostrano, tuttavia, ancora gli ingressi : quello principale a sud, le altre entrate ad ovest. Chiaramente percepibile è l’imponente volumetria dell’edificio, in cui sono chiaramente definiti una torre tronco-conica ed un contrafforte.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - Google Maps]

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]

  • Approfondimenti,  Cultura,  Storie di Emigrati

    EMIGRAZIONE TRAPPETARA

    Mario Corcetto

    Abitanti del Trappeto negli anni ’70 del Novecento – Foto di Mario Sorrentino

    Il fenomeno migratorio, conseguenza della grave situazione economica di tutto il Meridione, interessò massicciamente Montecalvo e, segnatamente, il Trappeto quale suo principale bacino. Dalla fine del secolo XIX agli anni sessante/settanta del secolo scorso non è esagerato dire che ci fu un vero e proprio esodo verso il Nuovo Mondo, prima, e verso l’Europa del Nord, dopo. Ancora oggi i Paesi ospitanti vedono Trappetari di terza/quarta generazione, oramai pienamente integrati, tra la loro forza lavoro e, molto spesso, tra i quadri dirigenti.
    Resa necessaria da fattori esogeni, sui quali gli umili non avevano potuto incidere in alcun modo e nei quali non avevano nessuna responsabilità, l’emigrazione, complice la connaturata abitudine al sacrificio dei Trappetari, fu percepita come una soluzione ai molti mali che affliggevano la popolazione più povera del quartiere. Bene inatteso ed insperato che riscattava dalla miseria chi si trovava indietro per condizione imposta, piuttosto che per difetto di capacità o volontà.
    Dal punto di vista sociale, l’emigrazione fu un eccezionale opportunità che i Trappetari seppero cogliere appieno. Uno strumento che decretò il definitivo ribaltamento dell’ordine sociale sino ad allora subito e che traghettò la classe contadina verso livelli di uguaglianza e dignità impensabili ed impensati fino ad allora.
    Generalmente, i primi a partire erano gli uomini, successivamente venivano raggiunti dalle mogli, quando la situazione in loco si era consolidata ed i permessi di soggiorno consentivano il ricongiungimento con il coniuge. La Svizzera, per esempio, aveva tre tipi di permesso di soggiorno: A, B e C. Il primo, detto anche stagionale, consentiva all’emigrante in possesso di regolare contratto di lavoro, di risiedere e lavorare sul territorio elvetico per massimo nove mesi all’anno, senza la possibilità di portare al seguito la famiglia. Erano consentite visite dei congiunti, ma soltanto come turisti e per massimo tre mesi all’anno. Il permesso di tipo B, ottenibile dopo quattro anni da stagionale, consentiva all’emigrante di lavorare per tutto l’anno e di portare la famiglia al seguito. Il permesso di tipo C, che veniva concesso dopo cinque anni dall’ottenimento del B, aggiungeva a quest’ultimo la facoltà per il suo possessore di aprire un’attività commerciale o artigianale propria. In ogni caso, per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, oltre agli anni ed al gradimento della ditta, insito nel rinnovo del contratto di lavoro, veniva considerato anche il comportamento nella vita privata dell’emigrante: i cittadini svizzeri erano molto solleciti a segnalare alla polizia ogni comportamento scorretto tenuto dagli ospiti.
    Non era raro, tuttavia, che, per scelta consapevole della coppia, la moglie restasse a Montecalvo a crescere la prole e che solo il marito si trasferisse, optando per una migrazione stagionale. Egli passava a casa i mesi rigidi dell’inverno ed il mese di agosto. Originando, così, quel fenomeno sociale delle cosiddette vedove bianche, che traghettò buona parte della società trappetara da una famiglia di tipo patriarcale ad una di tipo matriarcale, generando vere e proprie storture comportamentali con riflessi di non poco conto sul comune sentire. Si può pensare che mentre il padre, che notoriamente incarnava in seno alla famiglia l’autorità, orientava l’educazione dei figli verso il prioritario rispetto delle regole sociali, anche a costo di sacrificare i propri interessi. Le mamme, invece, avevano la tendenza a salvaguardare gli interessi diretti dei figli, se necessario anche a scapito del bene comune. Figlia di questo atteggiamento delle madri potrebbe essere l’abitudine a ricercare la “raccomandazione” per aggiudicarsi un lavoro o un qualsiasi altro beneficio.

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI

    Il Palazzo Caccese

    Il Palazzo fu eretto dalla famiglia Caccese nella zona che fa angolo tra l’attuale corso Vittorio Emanuele e piazza Vittoria. Palazzo Caccese è uno di quegli edifici di valore che hanno subìto nel tempo vere e proprie mutilazioni: dopo il terremoto del 1962, fu abbattuta la parte nord-est, mentre quella a nord-ovest fu demolita a seguito del sisma del 1980. Una sorte peggiore toccò ai palazzi Franco e Capozzi, che concorrevano con il palazzo Caccese alla conformazione della piazza e che furono completamente eliminati. Il palazzo era un tempo dotato di una maestosa volumetria, resa ancor più austera dalla presenza, al piano nobile, di una serie di balconi retti da mensole e sormontati da un timpano in pietra poggiante su volute, sia sul prospetto principale che sul lato. Quelli sulla facciata erano in numero di cinque e sotto, in corrispondenza, si aprivano finestre rettangolari con altre bucature quadrate inferiori. L’edificio era completato in alto da un’ elegante cornice dentellata. Di tutto ciò, allo stato attuale, é visibile solo un balcone laterale e la fascia centrale del prospetto, costituita da un balcone sovrastante un bellissimo portale . Quest’ultimo mostra, inscritto nel pannello rettangolare in pietra, un arco a tutto sesto con, alla sommità, lo stemma della famiglia.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale]

     

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]

    Redazione

  • Beni,  Beni etno-antropologici

    MONTE CHIODO DI BUONALBERGO

    Mario Sorrentino

    Il MONTE CHIODO – Buonalbergo BN – Il primo antemurale per la difesa avanzata dell’ oppidum

    [Ed. 21/09/2009] Nel silenzio di un posto ora deserto, ma una volta pulsante di vita, si possono avvertire, rimanendone catturati, delle presenze, delle realtà quasi sensibili difficili poi da rievocare con parole?
    Questo posto è la cima del Monte Chiodo, sopra Buonalbergo. Occorre però, una volta giunti lassù, chiudere gli occhi e acuire l’udito; e, belati, abbaiare e guaire di cani, muggiti, urla e canti umani (echeggianti suoni che sono sopravvissuti nelle parlate della nostra valle[1] ) arrivano nel vento.
    Si sale verso la cima del monte, a più di ottocento metri, e tra l’erba che riveste i sui fianchi, già da lontano si vedono biancheggiare massi rimasti nei secoli quasi segni inequivocabili, forse sapientemente connessi e allineati perché travalicassero la durata di innumerevoli generazioni e di civiltà diverse.
    La cima del monte e la fascia alta che la circonda è un’area in cui appare evidentissima la tripartizione di cui parlano gli studiosi degli oppida sanniti: i resti dei muri di un fortilizio sulla spianata della vetta; quelli di un santuario a qualche decina di metri più a valle forse ri-dedicato come chiesa al tempo della successiva cristianizzazione; e le numerose concavità disseminate nella fascia del terreno ancora più in basso. Questa fascia abbraccia i tre versanti non scoscesi in cui erano erette le abitazioni degli uomini fatte con materiali scomparsi in quelle concavità perché deperibili. Sembra indubitabile che si tratti di una tripartizione di uso specializzato del suolo caratteristico degli insediamenti non ancora urbani come quelli dell’antico Sannio[2] .
    Il sito di Monte Chiodo presenta come struttura principale una fortificazione di forma più o meno rettangolare (quasi un trapezio) che recinge l’intera vetta con mura di tipo ciclopico (muri a secco di pietre di varie dimensioni e non squadrate con eccessiva arte). L’area della fortificazione è sufficientemente spaziosa per accogliere e chiudere un consistente numero di capi di bestiame, il quale si sa che costituiva la ricchezza di cui i sanniti avevano cura preminente in caso di invasioni o assedi di nemici; o anche per tenerlo unito per le varie esigenze di tosatura, macellazione, mungitura ecc. delle bestie in tempo di pace. Convivevano nel rettangolo con il bestiame anche i pastori e gli armati in caso di assedio, probabilmente in capanne di cui sarebbe difficile trovare reperti. Giudicando dalla grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, che chiude il fortilizio nel lato minore in direzione sud-est, sembrerebbe che a Monte Chiodo ci si preoccupasse particolarmente dell’abbeveraggio del bestiame in caso di una prolungata chiusura nel fortilizio.

  • Cultura,  Cultura orale

    CROGIOLO DI LINGUE E CULTURE NELLA VALLE DEL MISCANO

    Mario Sorrentino

    [Ed. 00/00/0000] Ora, la lingua è il veicolo fondamentale della cultura perché in essa si riflette la visione del mondo della comunità che si esprime in quella lingua. Perciò questa nostra breve ricerca riflette anche una realtà che trascende quella linguistica e illumina un aspetto poco conosciuto di queste due comunità del nostro territorio della Irpinia-Daunia, posto a confine di tre province appartenenti a due regioni (Campania e Puglia). Disponiamo di testimonianze filmate del sindaco di Faeto e del sindaco di Greci che riflettono una convivenza  con le altre popolazioni presenti nel territorio circostante che è anche un esempio di pacifico confronto di mentalità, credi religiosi e costumi aventi all’origine poco in comune e che oggi possiamo definire come piena e armoniosa fusione di culture. Una fusione però che la sopravvivenza e l’amore della propria lingua nelle due popolazioni di Faeto e Greci segnalano una fedeltà alla propria identità d’origine la quale è un arricchimento che sarebbe imperdonabile mettere a rischio sia per i due paesi che quelle lingue parlano e cercano con grandi sforzi di preservare sia per i paesi di lingua italiana che li circondano.
    Faeto e Greci (trascurando per ora Celle San Vito, Ginestra degli Schiavoni e altre più piccole comunità d’origine allogena presenti nello stesso territorio) sono abitate dai discendenti di gruppi militari e loro famiglie che, nel caso di Faeto, riflettono la storia di Carlo d’Angiò, re di Sicilia e aspirante al Regno di Napoli in lotta con gli aragonesi, il quale premiò (con editto del 1269) duecento soldati provenzali, dopo che questi lo ebbero aiutato vittoriosamente nell’assedio di Lucera tenuta dai saraceni, concedendo a loro e alle loro famiglie di stanziarsi nel Casale di Crepacuore, lungo la Via Traiana. Ma decenni dopo, alla ripresa delle ostilità tra angioini e aragonesi, i soldati provenzali andarono ad arroccarsi nel territorio più sicuro dell’attuale comune di Faeto, nei pressi di un cenobio e un monastero (a metà circa del XIV sec.).
    Greci invece fa risalire le sue origini ai tempi di Ferrante I d’Aragona, il quale, come scrive Benedetto Croce nella Storia del Regno di Napoli: “…rimasto sovrano della sola Italia meridionale, (cioè del solo Regno di Napoli senza la Sicilia), respinse la nuova invasione angioina con una lunga guerra nella quale ebbe favorevole il papa e si procurò l’aiuto albanese di Giorgio Castriota”. Le truppe dello Scanderbeg furono determinanti per la vittoria del re aragonese nella battaglia di Orsara di Puglia, del 18 agosto 1462, quando il re aragonese sconfisse il pretendente angioino al trono napoletano. Ferrante concedette allora ai soldati albanesi di stanziarsi nel suo regno; però gli storici dissentono sulla data precisa in cui gli albanesi si arroccarono nel territorio dell’attuale comune di Greci e si mostrano incerti tra il 1462 (l’anno della battaglia di Orsara) e il 1522 (quando risulta che gli albanesi cominciarono a pagare tributi al re). [Nativo]