Beni
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Palazzo De Marco
Il palazzo è la residenza dei De Marco, illustre famiglia, residente a Montecalvo fin dal XVI secolo, che annoverò tra i suoi componenti numerosi notai e giuristi. All’edificio si riconosce una duplice datazione in quanto il suo impianto tipologico e distributivo risale al XIX secolo, mentre ad elementi quali i portali, le cornici in pietra delle finestre o i balconi in pietra lavorata sembrano settecenteschi se non tardorinascimentali. Diversamente da quanto accadde a molti altri palazzi della zona, le strutture di Palazzo De Marco resistettero molto bene ai terremoti che si abbatterono in zona negli anni 1930, 1962 e 1980. Sul portale d’ingresso, posto sul vico De Marco, è un monumentale stemma sul concio di chiave, recante la data A.D.1569. L’edificio, che é stato oggetto di recenti restauri, è stato destinato a sede della biblioteca di economia e dell’archivio personale del prof. De Marco, preside della facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Napoli.
[Crediti│Testo - CTC Centro turismo culturale]
Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993] -
Palazzo Siniscalchi
Il Palazzo che dal chiassetto Cassese domina il rione Trappeto fu la dimora della famiglia Siniscalchi che, a partire dalla prima metà del 1700, si trasferì a Montecalvo da Ariano dove era giunta in precedenza da Salerno. La particolarità di questo palazzo è la presenza di una scultura in pietra di età altomedioevale (X secolo) proveniente dalla chiesa di Sant’Angelo. Interpretata come la rappresentazione cristiana del Bene e del Male, la scultura raffigura un leone rampante dalla doppia pupilla, ritratto mentre sbrana un essere umano.
[Crediti│Testo - CTC Centro turismo culturale]
Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]
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Chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo
La chiesa di S. Maria Assunta, ex collegiata, sorge sul sito ove lo storico padre Arcangelo di Montesarchio afferma fosse stato eretto dai Romani un tempio. Questa teoria, però, non è supportata da indagini archeologiche. L’origine più remota della chiesa non è nota e, benché si abbia notizia che già nel 1400 ad essa faceva capo un capitolo ecclesiastico, la prima data certa della sua edificazione risale al 1428, sotto il governo di Francesco Sforza. La chiesa, costruita in adiacenza al Palazzo Ducale, fu nel tempo più volte ristrutturata ed ampliata. I terremoti del 1688 e del 1702 la colpirono a tal punto che, per iniziativa del cardinale Orsini, futuro Papa Benedetto XIII, fu sottoposta ad un accurato restauro. Molto danneggiata dai terremoti del 1962 e del 1980, la chiesa era dotata, fino a questa data, di una torre campanaria (già opera di ricostruzione dopo il sisma del 1930) successivamente demolita. Il tempio, chiuso per molto tempo, è stato riaperto al culto dopo i restauri del 1992. Una scala balaustrata a doppia rampa del XVII secolo conduce all’ingresso della chiesa posto a circa due metri dal piano stradale. Sulla balaustra sono evidenti gli stemmi delle famiglie Gagliardi e Pignatelli. La facciata a capanna è caratterizzata da elementi contornati in arenaria, distinti in un portale ad arco, con sovrapposta una lunetta gotica, due finestre e, al centro, il rosone. La pianta è a tre navate, suddivise da otto pilastri a croce in blocchi di arenaria a sostegno di archi ogivali. La navata centrale termina con un’ abside rettangolare con finestra sul fondo fatta realizzare nel 1693 per volontà del cardinale Orsini. Qui è l’altare maggiore in marmi policromi intarsiati, fatto realizzare nel 1728 dal duca Pompeo Pignatelli utilizzando un solo blocco di granito, e preceduto da una balaustrata anch’essa in marmo. In corrispondenza della navata destra è ubicata la Cappella dei Carafa, feudatari e conti di Montecalvo nel XVI secolo. La cappella, dedicata al SS. Salvatore, alla Beata Vergine ed ai santi Battista e Geronimo, ha pianta ottagonale ed è introdotta da un portale in arenaria con arco a tutto sesto, affiancato da semicolonne corinzie a sostegno della trabeazione. In corrispondenza di essa è, altresì, leggibile una iscrizione datata al 1556. L’imbotte dell’arco è decorato con formelle raffiguranti stemmi gentilizi. Anteriormente, è una balaustra marmorea aggiunta nel XVIII secolo. L’interno è rischiarato da un’elegante finestra rettangolare, posta sul fondo, ed è arricchito da medaglioni, finestre finte ed iscrizioni sacre dipinte. Ai due lati sono le cappelle simili di S. Felice e di S. Maria del Suffragio, fatte erigere con decreto del 1694. La prima mostra un cancello del XVII secolo recante le insegne della famiglia Pignatelli, feudataria nel periodo aragonese, mentre l’emblema della stessa è visibile anche sull’urna in legno dorato, contenente i resti di San Felice e la lampada in ferro batturto. Al 1726 risale invece l’altare marmoreo. La cappella di S. Maria del Suffragio, denominata poi del Monte dei Morti, ha anch’essa un altare marmoreo policromo con paliotto recante l’immagine dell’Assunta con ai lati lo stemma dei Pignatelli. In fondo alla navata sinistra è, invece, un pregevole fonte battesimale, opera scultorea di arte locale risalente ai primi del ‘500, costituito da un sarcofago poggiante su due colonnine con capitelli compositi in stile romanico, elementi di spoglio forse provenienti dalla chiesa longobarda di S. Angelo o dalla più antica chiesa di S. Maria, preesistente a quella attuale. Sullo stesso lato è visibile, all’inizio, una lapide, che ricorda l’ampliamento della Collegiata concesso da Clemente X nel 1672, sormontata da uno scudo in marmi policromi recante gli stemmi dei duchi di Montecalvo. Più al centro è un pregiato altare ligneo con la statua di San Rocco. Sempre sul lato sinistro è visibile, infine, una porta che immetteva nell’adiacente palazzo ducale e successivamente murata. La chiesa conserva, inoltre, diverse opere d’arte mobili tra cui due interessanti tele settecentesche raffiguranti la “Madonna Assunta” e “San Filippo Neri”, nonché una tela del XVII secolo raffigurante la “Madonna delle Grazie tra Santi”.
[Crediti│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - BeWeB / Beni architettonici in Web]
[Correlato nel SITO]Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993] -
Il Crocifisso scomparso dal Museo Parrocchiale di Montecalvo
LETTERA APERTA A S. E. FELICE ACCROCCA ARCIVESCOVO METROPOLITA DI BENEVENTO
Franco Aramini
[Ed. 09/03/2021] Eccellenza reverendissima, non Le nascondo l’imbarazzo nel rivolgermi a Lei nella pubblica modalità di una lettera aperta che vuole diffondere fatti e situazioni, a dir poco incresciosi, che nel corso degli ultimi mesi hanno travolto la comunità parrocchiale di S. Pompilio Maria Pirrotti in Montecalvo Irpino, e non solo.
Non ce ne sarebbe stato bisogno, se la Sua paterna attenzione fosse stata più visibilmente presente, sia per dissipare dubbi, sia per lenire ferite.
Non dubito delle Sue premurose curiali attenzioni che a seguito delle ancora misteriose dimissioni del parroco don Lorenzo Di Chiara si sono concretizzate con la nomina a vicario parrocchiale del Suo vicario generale.
E’ vero che questa Sua decisione ha, in qualche modo, sopperito ad un’assenza che, diversamente, sarebbe stata, o quantomeno apparsa, totale, ma è anche vero che, a tutt’oggi, alcuna risposta è venuta alle inquietanti domande che da quasi un anno, ormai, la nostra ferita e dispersa comunità si sta ponendo:
– la donazione di cinquantamila euro da parte di una benefattrice montecalvese per la ricostruzione del campanile più rappresentativo della nostra storia non solo religiosa: dov’è finita la gran parte di questi soldi, che come da comunicazione del Suo vicario non è più nel bilancio parrocchiale; e del campanile nemmeno l’ombra? Darà disposizioni, come dal Suo vicario promesso in un’informale riunione di ex collaboratori della parrocchia, per risarcire in qualche modo la nostra comunità?
– farà alla nostra comunità chiarezza sugli arcani movimenti bancari effettuati sul conto della parrocchia, con particolare riferimento all’enigmatica uscita di seimila euro, già segnalati con un esposto alle autorità competenti?
E la stessa chiarezza sarà fatta sulle altalenanti movimentazioni bancarie della Fondazione Rosa Cristini effettuate in assenza della prevista e obbligatoria autorizzazione del consiglio di amministrazione? irregolarità di cui dette comunicazione il delegato arcivescovile per il patrimonio nella stessa informale riunione?
In merito al secondo caso ha provveduto, la Sua curia, a segnalare la cosa alle autorità giudiziarie?
– verrà a ricordarci che la vera fede supera le popolari manifestazioni devozionali, comunque nei secoli generose di ori votivi la cui sparizione meriterebbe, in ogni caso, ferma e pubblica condanna?
E come mai, a tal proposito, il Suo vicario non ha denunciato, né agli organi di polizia né alla pubblica opinione, la raccapricciante sostituzione con plastica del preziosissimo crocifisso d’oro (circa due kg), dono a S. Pompilio di quella popolare devozione, visto che la foto attestante l’avvenuta scempiaggine risale a oltre sei mesi prima della denuncia esposta dall’attuale parroco?
– Le ha riferito, il Suo vicario, che nel corso dell’informale riunione di cui agli esposti precedenti un nostro parrocchiano collaboratore testimoniò pubblicamente di aver appreso dell’assenza dell’oro votivo della statua lignea dell’Abbondanza direttamente da chi lo aveva sottratto? E se sì, ha chiesto conto a costui di dove l’avrebbe custodito e dove tutt’ora si troverebbe? E ancora: hanno informato le forze investigative, Lei o il Suo vicario, di cotanta preziosa testimonianza? -
La scultura della Madonna Addolorata
Il volto dolente è quello di una giovane donna, caratterizzato dalla chioma fluente raccolta sulla nuca e dallo sguardo rivolto verso l’alto, in segno di estrema sofferenza; la bocca socchiusa conferisce alla scultura un ulteriore segno di muto dolore.
La testa appartiene ad un manichino perduto raffigurante la Madonna Addolorata ed è stata rinvenuta, insieme alle mani, il 16 marzo del 2001 a Montecalvo Irpino, durante i lavori per il restauro della casa natale di San Pompilio Maria Pirrotti. Nella stessa occasione vennero alla luce anche due statue raffiguranti, rispettivamente, la Madonna con Bambino e San Lorenzo. Non si conosce ancora la causa dell’occultamento dei tre pezzi nel sottoscala della casa del Santo anche se le fonti, facendo riferimento al terremoto del 1930, parlano dell’abbattimento della chiesa del SS. Corpo di Cristo e del trasferimento del San Lorenzo in casa Pirrotti. E’ ipotizzabile che quel che resta del simulacro della Madonna Addolorata, o fosse già custodito in casa perchè rovinato, o facesse parte dell’arredo della cappella di San Lorenzo nella chiesa del SS. Corpo di Cristo, e quindi fosse anch’essa di proprietà della famiglia Pirrotti.
[Crediti│Testo - Catalogo dei Beni Culturali │Foto - Franco D'Addona]
Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. I teschi che parlarono di Dio, Arti Grafiche Di Ieso, Casalbore AV, 2005] -
Il Costume tradizionale “La Pacchiana”
Il tipico costume femminile montecalvese prende il nome di “Pacchiana”. La sua unicità è rappresentata dal fatto che esso è sopravvissuto all’assalto dei tempi senza diventare il “relitto” di una società scomparsa, ma ancora quotidianamente indossato dalle donne del luogo. Originariamente esistevano due versioni dell’abito: quella giornaliera (piuttosto semplice) e quella delle grandi occasioni. La seconda, in particolare, si presentava molto particolareggiata, con lunghe mutande ornate da un merletto lavorato a “puntina” e calzettoni di una calda lana nera. Sulla camicia di mussola bianca, abbellita da iniziali rosse a “punto a croce” e da un fine merletto giallo, troviamo un gilet, dai vari colori, ed un corpetto nero che serve a reggere le maniche . Un “mantesino” (= grembiule, dal latino “ante-sinum”), ricamato con fili dorati, arricchisce la gonna di velluto o di raso plissettata, lunga fino al ginocchio, ma che nel corso del nostro secolo si è sempre più accorciata. Le scarpe, adornate con le “capisciole” (piccoli nastri), potevano essere di varie tinte. Il costume si componeva anche di un copricapo, che variava a seconda dei giorni: in quelli festivi si usava “la pannuccia” (molto larga e con una frangia che finiva col coprire tutta la schiena), mentre quotidianamente venivano utilizzati il “maccaturo” o la “tovaglia”, ricamata “a spugna”. L’oro costituiva un elemento fondamentale del costume. Era, infatti, stabilito che l’abito non poteva essere indossato qualora non fosse abbellito dalle preziose “tre file di oro a cocole”, dal “pungolo” e dalle “sciacquaglie” (orecchini pendenti). Le prime erano collane a triplo giro lunghe fino al seno, formate da piccole sfere a forma di “cocole” (vocabolo tipicamente dialettale con il quale si designano i frutti delle querce). Lo “spungolo”, invece, era una sorta di spillo che serviva a mantenere legati i capelli al copricapo e, eccezionalmente, poteva essere anche d’argento. La “pacchiana” poteva essere sia da lutto che da nozze. Quella da lutto era caratterizzata da un corpetto e da un copricapo di colore nero, mentre l’altra si contraddistingueva per la presenza della “scolla” (un lungo mantello in seta, bianco o celeste, che si estendeva sulla schiena), dei fiori d’arancio tra i capelli arricciati con la “castagnola” e per l’assenza del copricapo.
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - G.B.M. Cavelletti / dal Calendario "Ieri Oggi"]
[Correlato nel SITO]Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993] -
Il Murale di via P. Marciano Ciccarelli già via Maddalena
Il murale, a soggetto unico è tra i più grandi in Italia, ricopre il muro di cinta dell’antico bosco dei frati minori, che si estende per 510 mq. L’opera illustra le vicende della comunità montecalvese dalle origini fino alla seconda metà del 1600 ed è stata realizzata, con uno splendido intreccio tra mito e storia, dagli artisti Lavinio Sceral, Lello Sansone, Michele Giglio e Renato Criscuolo, coordinati dal critico d’arte Maria Russo. La prima figura mitica rappresentata è lo ” scazzamariello”, un dispettoso folletto che, secondo la tradizione popolare, ha il potere di defecare oro. Altro soggetto è la “pacchiana”, cioè la donna con il tipico costume montecalvese, simbolo di una civiltà scomparsa o, comunque, profondamente trasformata (cfr. scheda 13 del comune di Montecalvo Irpino). Ancora, si scorge la rocca romana, sorta durante le guerre sannitiche e destinata a diventare il castello di Montecalvo. Sono inoltre rappresentate la dea Mefite e le leggendarie Janare (streghe). Queste ultime, in piena tempesta, si radunavano per danzare intorno al famoso noce di Benevento, recitando la formula magica : “sott’acqua e sott’a bbientu sott’a la noce di bbinivientu” (sott’ acqua e sotto vento sotto il noce di Benevento). Un’altra scena è ambientata in contrada Malvizza : qui un oste malvagio serve carne umana ai malcapitati avventori e Satana, concorrente nel male, o Cristo, sdegnati da tanta efferatezza, inabissano la taverna nelle viscere della Terra da dove sarebbero sorte le malefiche bolle. Un altro soggetto del murale è la terribile peste che si abbatté sull’intero regno di Napoli nel 1656. Il viaggio tra la Storia ed il Mito di Montecalvo si conclude ad Oriente : “le esperienze guerresche degli antichi crociati e l’arrivo della cultura araba, filtrata nelle esperienze dei Pugliesi immigrati a Montecalvo dopo la peste del 1656, si tramandano in segni di pietra scolpiti sui noti portali che la magica lanterna di Aladino trasforma in un dolce paesaggio orientale”. Infine, l’opera si conclude con un portale che si apre al futuro, segno cioè che la storia continua. Tutte le scene rappresentate sono unite da un tappeto rosso volante.
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale] [Correlato nel sito]
Giovanni Bosco Maria Cavalletti
[Bibliografia di riferimento]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993] -
L’ospedale di S.Caterina
L’ospedale di S.Caterina sorse nel XIII secolo per volontà degli armigeri che, di ritorno dalla Terra Santa, lo costruirono addossandolo direttamente alla cerchia muraria. L’ospedale fu eretto accanto all’omonima chiesa, non più esistente, fondata alla fine dell’ XI secolo dai Crociati montecalvesi di ritorno dalla Terra Santa. L’esistenza, già a quell’epoca, di un ospedale è stata interpretata come segno del notevole livello raggiunto dalla società di Montecalvo, ove pare che si svolgesse una fiera intitolata anch’essa a S. Caterina e svolta nello stesso luogo. Più tardi sorse anche un altro ospedale, quello dell’Annunziata, ubicato fuori dalle mura. Nel 1518, grazie al conte Sigismondo Carafa, l’Ospedale e la chiesa di S. Caterina furono affidati a Felice da Corsano, religioso locale nonché fondamentale figura nella storia dell’Ordine Agostiniano. Un documento del XVII secolo rende note la quantità e la funzione degli ambienti che componevano l’ospedale, tra cui una stanza adibita a carcere, un’altra con grotta adiacente, due dormitori, otto celle oltre ai locali di servizio. L’Ospedale di S. Caterina è attualmente ricordato attraverso i suoi ruderi che mostrano, tuttavia, ancora gli ingressi : quello principale a sud, le altre entrate ad ovest. Chiaramente percepibile è l’imponente volumetria dell’edificio, in cui sono chiaramente definiti una torre tronco-conica ed un contrafforte.
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - Google Maps]
Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]
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Il Palazzo Caccese
Il Palazzo fu eretto dalla famiglia Caccese nella zona che fa angolo tra l’attuale corso Vittorio Emanuele e piazza Vittoria. Palazzo Caccese è uno di quegli edifici di valore che hanno subìto nel tempo vere e proprie mutilazioni: dopo il terremoto del 1962, fu abbattuta la parte nord-est, mentre quella a nord-ovest fu demolita a seguito del sisma del 1980. Una sorte peggiore toccò ai palazzi Franco e Capozzi, che concorrevano con il palazzo Caccese alla conformazione della piazza e che furono completamente eliminati. Il palazzo era un tempo dotato di una maestosa volumetria, resa ancor più austera dalla presenza, al piano nobile, di una serie di balconi retti da mensole e sormontati da un timpano in pietra poggiante su volute, sia sul prospetto principale che sul lato. Quelli sulla facciata erano in numero di cinque e sotto, in corrispondenza, si aprivano finestre rettangolari con altre bucature quadrate inferiori. L’edificio era completato in alto da un’ elegante cornice dentellata. Di tutto ciò, allo stato attuale, é visibile solo un balcone laterale e la fascia centrale del prospetto, costituita da un balcone sovrastante un bellissimo portale . Quest’ultimo mostra, inscritto nel pannello rettangolare in pietra, un arco a tutto sesto con, alla sommità, lo stemma della famiglia.
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale]
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]Redazione
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MONTE CHIODO DI BUONALBERGO
Mario Sorrentino
[Ed. 21/09/2009] Nel silenzio di un posto ora deserto, ma una volta pulsante di vita, si possono avvertire, rimanendone catturati, delle presenze, delle realtà quasi sensibili difficili poi da rievocare con parole?
Questo posto è la cima del Monte Chiodo, sopra Buonalbergo. Occorre però, una volta giunti lassù, chiudere gli occhi e acuire l’udito; e, belati, abbaiare e guaire di cani, muggiti, urla e canti umani (echeggianti suoni che sono sopravvissuti nelle parlate della nostra valle[1] ) arrivano nel vento.
Si sale verso la cima del monte, a più di ottocento metri, e tra l’erba che riveste i sui fianchi, già da lontano si vedono biancheggiare massi rimasti nei secoli quasi segni inequivocabili, forse sapientemente connessi e allineati perché travalicassero la durata di innumerevoli generazioni e di civiltà diverse.
La cima del monte e la fascia alta che la circonda è un’area in cui appare evidentissima la tripartizione di cui parlano gli studiosi degli oppida sanniti: i resti dei muri di un fortilizio sulla spianata della vetta; quelli di un santuario a qualche decina di metri più a valle forse ri-dedicato come chiesa al tempo della successiva cristianizzazione; e le numerose concavità disseminate nella fascia del terreno ancora più in basso. Questa fascia abbraccia i tre versanti non scoscesi in cui erano erette le abitazioni degli uomini fatte con materiali scomparsi in quelle concavità perché deperibili. Sembra indubitabile che si tratti di una tripartizione di uso specializzato del suolo caratteristico degli insediamenti non ancora urbani come quelli dell’antico Sannio[2] .
Il sito di Monte Chiodo presenta come struttura principale una fortificazione di forma più o meno rettangolare (quasi un trapezio) che recinge l’intera vetta con mura di tipo ciclopico (muri a secco di pietre di varie dimensioni e non squadrate con eccessiva arte). L’area della fortificazione è sufficientemente spaziosa per accogliere e chiudere un consistente numero di capi di bestiame, il quale si sa che costituiva la ricchezza di cui i sanniti avevano cura preminente in caso di invasioni o assedi di nemici; o anche per tenerlo unito per le varie esigenze di tosatura, macellazione, mungitura ecc. delle bestie in tempo di pace. Convivevano nel rettangolo con il bestiame anche i pastori e gli armati in caso di assedio, probabilmente in capanne di cui sarebbe difficile trovare reperti. Giudicando dalla grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, che chiude il fortilizio nel lato minore in direzione sud-est, sembrerebbe che a Monte Chiodo ci si preoccupasse particolarmente dell’abbeveraggio del bestiame in caso di una prolungata chiusura nel fortilizio.