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  • Beni,  Beni culturali,  Chiese

    La Chiesa del Carmine

    La chiesa del Carmine, edificata nel 1498, fu tenuta dal 1518 dai Padri Agostiniani Ilicetani; nel 1693 il cardinale Orsini vi trasferì la funzione parrocchiale del Rettore di S. Nicola. La chiesa fu inizialmente dedicata a S. Sebastiano ma nel 1652 cambiò la sua denominazione in chiesa di Maria SS. del Carmine, come attestato da una iscrizione su arenaria conservata nel giardino del non più esistente Palazzo Stiscia, ad essa adiacente. La chiesa del Carmine fu notevolmente danneggiata dai vari terremoti succedutisi nel corso della sua storia. A seguito di quello del 1627, probabilmente fu oggetto di un primo rifacimento e risultò ulteriormente danneggiata dai terremoti del 1688, 1702, 1930 e 1962. La volontà di conservarne il ricordo,malgrado le distruzioni, rende quest’opera il classico caso di luogo di culto importante nella memoria del paese, anche se non più presente nella sua originaria sostanza, tanto che essa fu completamente rifatta dopo il 1930. In quell’occasione l’edificio fu arretrato di alcuni metri verso Sud-Ovest, occupando una parte del giardino Stiscia. Il terremoto del 1962 richiese l’esecuzione di un ulteriore restauro, mentre i lavori al pavimento e alla facciata furono eseguiti successivamente. La facciata della chiesa del Carmine contribuisce a creare le quinte dell’ampia piazza omonima, oggetto, anch’essa , di una accurata sistemazione. La facciata è anticipata da un basso corpo traforato da archi a tutto sesto di cui quello centrale, più ampio ed alto, costituisce l’ingresso. Sul retro è un liscio piano terminante a tetto inclinato e recante al centro uno schematico rosone circolare. Ancora più arretrate sono le due piccole ali laterali, anch’esse a profilo spiovente, recanti ciascuna una snella finestra arcuata. Lateralmente l’edificio è ancor più disadorno e mostra, quali unici elementi architettonici, finestre bifore inquadrate in arcate cieche a tutto sesto. La chiesa ha impianto a tre navate e conserva all’interno alcune rilevanti opere d’arte, quali statue in legno dipinto, raffiguranti San Felice Martire e la Madonna della Libera, risalenti rispettivamente al XVII e al XIV (o forse XV) secolo. Oggetto di pellegrinaggio dei fedeli arianesi, la statua della Madonna è forse proveniente dal non più esistente feudo di Corsano. Il culto di San Felice, patrono di Montecalvo, è onorato in questa chiesa anche dalla presenza di un’urna contenente le ossa del Santo. Opera notevole è anche il pulpito ligneo del XIX secolo, conservato in sacrestia insieme ad alcune porte intarsiate.
    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - Google Maps]

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]

  • Beni,  Beni artistici e storici

    Il Crocifisso ligneo nella Chiesa di S. Antonio da Padova

    Redazione

    Posto sul mobile da sagrestia, il crocifisso è di ottima fattura ed in buono stato di conservazione. Cristo è rappresentato, secondo l’iconografia tradizionale, con la testa reclinata sulla spalla destra, il corpo chiaramente segnato dal martirio e perizoma in vita. Il bene è tutelato Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici per le province di Salerno e Avellino. Datazione: XVII secolo (1668)

    [Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale]

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI,  Territorio,  Trekking

    LA STAZIONE DELLE PECORE DI TRE FONTANE

    Mario Sorrentino

    In altre schede di questo sito parliamo della transumanza e dei tratturi (v. Le Bolle della Malvizza con la scheda storica e Monte Chiodo di Buonalbergo). Però pochi punti degli antichi tracciati danno come fa la stazione del tratturo di Tre Fontane l’impressione vividissima che essa sia stata appena occupata e svuotata nel perenne alternarsi della discesa delle greggi dagli Abruzzi e la loro risalita dalle Puglie lungo il Regio Tratturo.
    Sorge questa stazione tra la valle del torrente Cervaro e quella del torrente Miscano, nelle acque del quale venivano lavate le pecore prima della tosatura all’altezza del Ponte Bagnaturo, così chiamato proprio per questo uso.
    Tre Fontane è precisamente una sezione tagliata nella Via Traiana, che i romani costruirono del resto anche su uno dei tratturelli preesistenti e diramantisi dal ramo principale e preistorico di quello che sarà chiamato Regio Tratturo Pescasseroli-Candela, quando venne istituita la Dogana di Foggia con un decreto di Alfonso d’Aragona, nel 1447. Abbandonata la via romana alla decadenza, i pastori si ripresero i tratturi, fra i quali questo che passava da Tre Fontane.
    Ancora abitata oggi, la stazione si trasformò per ultimo in masseria, ma ha preservato tra le altre antiche strutture due grandi e lunghi abbeveratoi alimentati dalle sorgenti che, c’è da credere, sempre li hanno riempiti e li riempiono di fresca e abbondante acqua. Alla stazione delle pecore si entrava e si usciva da due ampie porte ad arco a tutto sesto che si fronteggiavano e si fronteggiano nel senso ovest/est. Lungo il lato opposto al muro di cinta in grossi blocchi di pietra, che corre in questo stesso senso, ci sono ancora gli edifici antichi anch’essi in pietra e ancora quasi integri, i quali sono prolungati dalle costruzione recenti della masseria.
    Se si sta in piedi al centro della corte principale, con i piedi immersi nell’erba folta, e si chiudono gli occhi, facilmente l’immaginazione suggerisce i belati e i forti afrori degli animali, le urla rauche dei pastori e l’abbaiare dei grossi cani abruzzesi.
    Andiamo a visitare il cortile più piccolo verso nord, passando sotto un portico ad arco che sorregge ancora l’abitazione dei “signori”, come li chiama il figlio della proprietaria della masseria. Soggiornavano lassù una volta i padroni delle greggi che le seguivano a cavallo, e dopo, in tempi più recenti, i proprietari della masseria. In questa corte piccola c’è ancora la stalla riservata alle bestie “partorienti” e ai nuovi nati destinati a rimanere indietro rispetto al grosso che ripartiva. La stalla ha dei compartimenti delimitati da muretti di pietra per la “comodità” delle singole madri e dei loro piccoli.
    Prima di partire beviamo ancora dai getti degli abbeveratoi l’acqua gelata; e ci sembra di compiere un rito che se ancora ristora non ha per noi l’importanza vitale, quasi sacra, che aveva per quei pastori.

    Francesco Cardinale ed io (Mario Sorrentino) ringraziamo Gaetano Caccese che ci ha fatto scoprire Tre Fontane guidandoci sin lì.

  • Ambiente,  Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI

    IL PONTE DI SANTO SPIRITO, DETTO ANCHE “DEL DIAVOLO”

    Mario Sorrentino

    [Ed. 00/00/0000] Rudere del pilone di un ponte, con gli innesti delle arcate che una volta vi si appoggiavano; il ponte è detto anche “del Diavolo”, poiché in una leggenda agiografica, tra le altre cose, si narrava che era stato eretto e distrutto magicamente in una sola notte dal Diavolo. Lontano da ogni opera dell’uomo, alto e scabro, lo spuntone atterriva veramente i viandanti creduloni che non potevano evitare di passarci vicino di notte.
    In realtà il pilone è tutto ciò che resta di un ponte romano che, come quello delle Chianche, nel territorio di Buonalbergo sorgeva lungo la Via Traiana, costruita agli inizi del II sec. d.C. per collegare più celermente Benevento a Brindisi, rispetto alla più antica Via Appia che portava ugualmente a Brindisi, ma passando da Aeclanum.
    Il Ponte di Santo Spirito era probabilmente di dimensioni maggiori rispetto a quello delle Chianche, poiché doveva superare in questo caso un fiume, e un fiume dalle rive molto scoscese, il Miscano.
    Nel greto ciottoloso di questo corso d’acqua, diventato ai nostri giorni una “jumara” secca, fu rinvenuta, qualche decennio fa, non lontano dal rudere del ponte, una pietra miliare di dimensioni non comuni, forse perché accoglieva nell’epigrafe informazioni anche sull’opera e sul committente in forma celebrativa. La lapide si trova ora in località Malvizza di Sopra, ma la sua sede originale era stata molto probabilmente uno dei capi del ponte.
    Come si può vedere nelle nostre foto della lapide, si legge appena qualcosa dell’epigrafe. Troppo poco per ricostruire il suo senso completo. Comunque, il termine mutilo “–ONTES” che vale (P)ONTES, senz’altro accusativo plurale, e BRVNDISIVM possono farci azzardare l’ipotesi che nell’epigrafe si parlava di tutti i ponti costruiti da Benevento a Brindisi a spese di qualcuno, se “–(I?)A – SVA” si ricostruisce con (PECVNI)A SVA, cioè “con i suoi soldi”. Mentre la doppia abbreviazione “P – P”, “Pater Patriae” (“Padre della Patria”) è uno dei titoli ufficiali dell’imperatore come attesta l’epigrafe dedicatoria dell’Arco di Traiano a Benevento.
    Chi poteva avere dunque tanti soldi se non il munifico M. Ulpio Nerva Traiano, che per finanziare tutte le sue bellissime e grandiose opere a Roma (il Foro con la famosa Colonna Ulpia e i Mercati coperti, le Terme con cui ricoprì la Domus Aurea di Nerone) e porti, ponti e archi ad Ancona, a Ostia, in Romania, a Benevento e in tanti altri posti stava quasi per dichiarare fallimento, imperatore e tutto che era?
    Non ci risulta che l’epigrafe del Ponte del Diavolo sia stato registrato nel Corpus Inscriptionum Latinarum (C.I.L.)
    [Nativo][Correlato nel SITO│Ponte di S. Spirito o del Diavolo]

  • Beni,  Beni artistici e storici

    Il Palazzo Pirrotti

    Il Palazzo Pirrotti in Montecalvo ha un’importanza rilevante per un duplice ordine di motivi. Il primo è rappresentato dall’evidente valore storico-artistico dell’edificio, testimonianza di una tipologia fondamentale per lo sviluppo urbanistico del paese, cioè quella del palazzo signorile. Il secondo, prettamente storico, é legato all’importanza dell’edificio come residenza della famiglia Pirrotti, di stanza a Montecalvo dalla fine del XV all’inizio del XX secolo. In questo palazzo, infatti, ha avuto i natali, il 29 novembre 1710, Pompilio Maria Pirrotti, elevato agli altari per la sua intensa attività di insegnamento e di apostolato. Annessa al palazzo é la moderna chiesa, dedicata al santo, ricavata in età fascista nei locali al pianterreno, mentre tra la chiesa ed il cortile é ubicato il suo archivio. Rimaneggiato nel tempo, l’edificio conserva il suo elemento più caratterizzante e cioé l’antico portale con arco a tutto sesto, in pietra, definito, come i piedritti, da una successione di conci ben lavorati, aventi due diverse lunghezze e disposti alternativamente. Tangente in sommità corre un’alta fascia bianca di coronamento, interrotta al centro dallo stemma della famiglia Pirrotti realizzato anch’esso in pietra. Lo stemma raffigura una donna con i capelli raccolti da un nastro e spioventi sulle spalle, che reca una torcia accesa nella mano destra ed un ramo con cinque rose nella sinistra. La figura é completata da bande bicolori che corrono al di sotto della figura e da due ali che sovrastano la medesima a mò di corona. Il simbolismo dello stemma dovrebbe essere interpretato come un riferimento alle origini del nome “Pirrotti”, cui si riconosce un legame con Pirro, del quale é richiamato il breve dominio in Macedonia ( rappresentato dalle cinque rose che indicherebbero i cinque anni di regno) mentre la torcia richiamerebbe la radice greca “pur” (=fuoco) in corrispondenza con il nome Pirrotti. Sul resto della liscia facciata intonacata emergono alcune lapidi apposte come tributo al santo. Il portale, chiuso da un solido battente in legno, immette nel cortile interno anch’esso appartenente all’originario impianto. Sugli architravi dei portali è possibile leggere due motti araldici della famiglia Pirrotti: “Nobiliora altiora petunt” e ” Potius mori quam foedari”. Originale è, altresì, il pavimento della stanza dove nacque il Santo, conservato sotto il tetto dell’edificio. Altra parte superstite è quella dei sotterranei, costituiti da vani aperti nel tufo grezzo, adibiti a cantine, su cui poggiano le fondamenta della casa.

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]

     

     

  • Beni,  Beni artistici e storici

    Il Palazzo Peluso e gli affreschi settecenteschi

    Francesco Cardinale

    Il Palazzo Peluso–Ciampone–De Juliis, o ciò che ne rimane, rappresenta uno dei beni di maggior prestigio a Montecalvo Irpino. Nonostante sia sottoposto al vincolo della “Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio” e sia stato dichiarato “Monumento nazionale”, una parte dell’edificio è stata demolita in seguito al terremoto del 1980. Oltretutto, pare che manchi il tetto, l’usura del tempo continua a causare danni significativi.
    Questo palazzo, caratterizzato da un’estetica impeccabile, fu progettato dall’architetto e ingegnere Giulio Buratti. Purtroppo, a causa dello sconsiderato abbattimento di una porzione, come riportato appena sopra, si sono irrimediabilmente persi elementi di grande valore, tra cui affreschi settecenteschi che erano conservati in alcune sale e nella cappella privata. [Foto – Giovanni Bosco Maria Cavalletti]

  • Ambiente,  Beni

    IL TIGLIO DEL 1626

    [Edito 00/00/00] Nel 1626 cominciavano i lavori per il convento di Sant’Antonio. In quell’occasione, si racconta, un frate piantò Il tiglio * (ormai vecchio di quattro secoli) che si ammira di fronte al monastero. Quel tiglio, per secoli, è stato il geloso custode di vita e miracoli dei viandanti che, all’ombra della sua frondosa chioma, si riposavano al ritorno dai faticosi lavori agricoli. Si dice pure che ai suoi maestosi rami, quando la giustizia veniva amministrata in loco, un cittadino, reo di un gravissimo misfatto contro la persona, sia stato impiccato. Da questo episodio, quando il convento si trovava “fuori terra”, cioè al di fuori del centro abitato, è scaturita la leggenda del fantasma che si aggira, di notte, attorno al tiglio (l’ “esistenza” di questa pianta di quasi quattrocento anni d’età è stata segnalata, con foto, al FAI – Fondo per l’Ambiente Italiano – per essere inserita nell’elenco degli alberi monumentali d’Italia). [Nativo]

    Redazione

     

     

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI

    Palazzo De Cillis

    Il palazzo è legato alla presenza in Montecalvo dell’ illustre famiglia De Cillis. I De Cillis si distinsero per aver dato i natali a diversi giuristi ed ecclesiastici, contribuendo notevolmente alla vita socio-religiosa del paese. Montecalvo, inoltre, ebbe ben quattro sindaci con questo cognome, la cui attività si concentrò tra il 1793 e il 1891. L’edificio, che rientra nella tipologia del palazzo signorile, ha l’ elemento di maggior pregio nel portale in pietra bianca. L’arco, a tutto sesto, é impostato su schematici capitelli in forte aggetto poggianti su stipiti con paraste, addossate ed impostate su alte basi dal forte rilievo plastico. La particolarità del portale è data dalla ricca presenza di decorazioni ornamentali in stile floreale, costituite da formelle finemente cesellate che corrono lungo le paraste (ve ne sono cinque su ciascuna di essa) e lungo l’arco (altre cinque rispettivamente alla destra e alla sinistra della chiave di volta). Una seconda decorazione modulare, dal diverso disegno ma dall’analogo stile, corre esternamente alla prima per tutto il portale. Particolare è, inoltre, il concio in chiave sostituito da un elemento scultoreo, fortemente aggettante, che regge un grande stemma della famiglia, sagomato ed ornato di volute. Quest’ultimo é distaccato rispetto alla parete di fondo e, se si guarda con attenzione alle sue spalle, si percepisce la singolare presenza di una testa di demone o di moro scolpita in pietra. Il portale domina l’intera facciata al piano terra presso cui si trovano altre più semplici aperture. Il piano nobile è, invece, dominato dalla presenza di una serie di balconi, tutti uguali, composti da un vano architravato e contornato da una larga fascia chiara e da un voluminoso disegno d’inferriata. Di rilievo è, inoltre, il risalto plastico delle mensole modanate che ne costituiscono il piano d’appoggio. Il prospetto termina in alto con un’alta e sporgente cornice. Incorporata nel palazzo é la cappella dedicata a S. Maria della Neve o del Soccorso, cui si accede dall’interno oltre che da corso Umberto.

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]

  • Beni,  Chiese

    Chiesa S. Maria Assunta in Cielo

    [Ed. 00/00/0000] Alla sommità del paese, attigua alla residenza dei duchi, si erge la chiesa più antica di Montecalvo: S. Maria Assunta in Cielo. Presumibilmente sorta sui ruderi di un antico tempio, dal 1300 ha sfidato tutte le catastrofi abbattutesi sul paese, per giungere a noi nella sua bellezza originaria, anche se sembra destinata ad un non felice rapporto con gli uomini e con il tempo.
    Edificata intorno alla prima metà del XIV secolo, rappresenta un vero gioiello di stile dell’epoca.
    L’ingresso della Chiesa è posto a circa due metri dal piano stradale, vi si accede attraverso una breve rampa di scala con una bella balaustra , su cui si evidenziano gli stemmi delle famiglie Gagliardi e Pignatelli.
    La facciata si presenta con un portale ad arco cui si sovrappone una luna gotica, due finestre ai lati ed un rosone centrale.
    L’interno è a tre navate diviso da pilastri costituiti da blocchi d’arenaria.
    Nella navata destra è collocata la Cappella dei Carafa, a pianta ottagonale, con arco in arenaria sostenuto da due magnifiche colonne.
    Fu fatta costruire da Giovan Battista Carafa, terzo Conte di Montecalvo, è rappresenta un vero gioiello d’arte cinquecentesca. Affiancata si trova la Cappella di San Felice Martire, patrono di Montecalvo, il cancello di ferro appartiene al XVII secolo e reca le insegne della famiglia Pignatelli.
    In essa è collocata l’urna con i resti mortali di San Felice Martire, patrono di Montecalvo Irpino.
    Da pochi anni è stata ripresa la tradizionale festa del Santo patrono, che si svolge il 31 Agosto.
    La cappella accanto alla sacrestia è dedicata a S. Maria del Suffragio. Nella navata sinistra è situato un caratteristico fonte Battesimale del ‘500, formato da un sarcofago posto su colonne fregiate da capitelli corinzi. Nella nicchia sovrastante, si nota l’altare ligneo dedicato a San Rocco. La navata centrale termina con un Abside rettangolare, preceduta dall’Altare Maggiore voluta dal duca Pompeo Pignatelli nella seconda metà del XVII secolo.  [Nativo]

    Redazione

    [Bibliografia di riferimento]
    [Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
    [AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]


  • Beni,  Cultura,  Cultura rurale

    MUSEO DEI MESTIERI E DELLA CIVILTÀ CONTADINA

    Angelo Siciliano

    Macina e Pressa di un antico Frantoio

    [Ed. 18/09/1989] La scomparsa di alcuni Mestieri, dovuta all’introduzione di nuovi strumenti di lavoro e tecnologie innovative, e della civiltà contadina arcaica, tramandataci da tradizioni secolari, ci impone una riflessione seria su quanto stiamo perdendo della nostra identità etnica e storica. La storia, giustamente, non può fermarsi; la memoria collettiva svanisce nell’arco di qualche generazione e attualmente non va ad alimentare più né miti né leggende.

    Pertanto, diviene urgente e si pone l’idea di un MUSEO DEI MESTIERI E DELLA CIVILTÀ’ CONTADINA in Irpinia , perché la storia , certamente storia umile e oscura date le modeste condizioni di vita ,dei nostri padri riviva e sia tramandata alle nuove generazioni che si avviano ad avere come unico patrimonio i mass media.

    PROMOTORI – Sono invitati ad accogliere e sviluppare questa “idea” i cittadini sensibili alla questione, le Associazioni culturali, i Comuni della zona.

    MODALITÀ – In una prima fase, presso le sedi dei singoli Comuni andrebbe raccolto il materiale, esaurientemente schedato e descritto; in una fase successiva si potrà pensare e progettare l’allestimento di un museo unico per tutti i Comuni.

    MATERIALE Prodotti e strumenti di lavoro artigianale (possibilmente originali e non alterati) dei singoli mestieri (calzolaio, fabbro, maniscalco, carrozzaio, falegname, secchiaio, cestaio, sarto, barbiere, mugnaio, sellaio, ceramista, s arrotino, fotografo, ecc.);
    Strumenti e utensili adoperati in agricoltura compresi quelli dei boscaioli e carbonai, con un’attenzione particolare ai tipi di colture praticate;

    Fotografie di tutto ciò che é intrasportabile: mulini, quartieri popolari, grotte e altre tipologie abitative quali pagliai, casini, masserie, ecc. Non dovrebbero esservi limiti di tempo per quanto concerne l’epoca di riferimento della ricerca del materiale in questione; ma anche reperti preistorici o comunque delle epoche romana e successive sarebbero ben accetti. Tutto il materiale raccolto, datato, deve offrire la possibilità di in utilizzo a livello scientifico, anche per studi etnografici sulle condizioni socio-economiche della popolazione locale, oltre che sulle tecniche produttive e organizzazione del lavoro adottate. A parte, si ritiene fondamentale una ricerca etno-linguistica (dialetti dei vari paesi) che contribuisca a un approfondimento in senso antropologico dell’area irpina, perché le parole hanno sempre un collegamento con le cose. [Nativo]