Cultura

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI,  Beni artistici e storici

    In difesa del centro storico

    Carlo Cavotta

    [Edito 00/00/2004] Passeggiare lungo le strade del centro storico di Montecalvo, rito che peraltro compio sempre con estremo piacere, è occasione per partorire valutazioni e osservazioni foriere di sana frustrazione. Visitare e perlustrare altre realtà cittadine, limitrofe o lontane che siano, qualche volta più sfortunate della nostra, è motivo di ulteriore avvilimento, che si origina dalla comparazione delle nostre condizioni urbanistiche con gli assetti decorosi che altre comunità hanno saputo dare ai propri luoghi.
    Alle rovinose aggressioni dei cataclisma, succedutisi nel corso della storia, hanno fatto seguito, con conseguenze non meno dannose, l’incuria e l’imperizia di chi è stato chiamato a tutelare il nostro territorio, di chi, forse per incapacità o negligenza, non è stato in grado di preservare le antiche vestigia della bella Montecalvo.
    E’ scoraggiante constatare, giorno dopo giorno, lo stato di abbandono e degrado a cui è stato condannato il nostro amabile centro storico, relegato ad un luogo di fugace passaggio o ad un peripatetico trastullo.
    Comunità, ispirate da alto senso civico, hanno reso il centro storico lo spazio vitalizzante di ogni attività, l’area in cui consumare le esperienze quotidiane, il momento centrale della vita cittadina. Perché da noi questo non è possibile? Qual è il progetto sul nostro centro storico?
    Credo che manchi un reale disegno lungimirante, un investimento culturale di ampi orizzonti. Montecalvo non può permettersi altri differimenti: si rende urgente e necessario intervenire. In che modo?
    In primis, convogliare nel centro storico interessi, attività, iniziative.
    Sarebbe stato opportuno, in tal senso, spostare gli ambulanti, accorsi in occasione della fiera di Santa Caterina, allocare stands e banchi espositivi lungo Corso Umberto; si sarebbe potuto installare anche nella zona antica le luminarie natalizie. Si potrebbero prevedere sussidi e sconti fiscali per chi intenda trasferire la propria dimora nel centro storico; favorire allo stesso modo l’apertura di attività commerciali; occupare immobili abbandonati e utilizzarli come sedi di associazioni, circoli, partiti; elaborare la possibilità di rendere lo spazio isola pedonale, se non permanente, almeno ogni domenica, data l’affluenza dei fedeli presso la chiesa Collegiata. Il tutto sorretto da un serio programma di interventi urbanistici e architettonici, diretti a preservare e soprattutto ristrutturare, nel pieno rispetto dei canoni estetici e dei criteri normativi, gli spazi e gli edifici in rovina. Ben vengano le opere di recupero, ma che siano compiute con gusto, con cura e con l’attenzione rivolta al possibile utilizzo del bene: non si interviene per stravolgere bensì per abbellire e funzionalizzare. Si predispongano incontri, tavole rotonde attorno alle quali confrontarsi pacificamente, con spirito collaborativo e prospettive di feconde finalità.
    Perché attendere?
    Costa dell’Angelo non può soffocare sotto le lastre di cemento che ne hanno deturpato la grazia; corso Umberto soffre una pavimentazione di basolato frammista a cemento e catrame; i vicoli che si inerpicano fin su a Santa Maria meritano più decoro e valorizzazione, al pari dei vichi che da corso Umberto in picchiata si tuffano in Via Santa Caterina, in via Lungara Fossi o verso il Tappeto. E basterebbe veramente poco: pulizia, riassetto pavimentazione e illuminazione. Il Trappeto, gioiello del nostro centro storico, dichiaratamente castigato e condannato all’oblio.E si potrebbe continuare, ma qui ora non preme fare elencazioni. Urge assolutamente intervenire!!
    Io, giovane di Montecalvo, amante della mia terra, elevo un grido: difendiamo il centro storico. [Credit│alternativapermontecalvo.it]

  • Ricorrenze religiose

    Preghiera a S. Antonio

    Montecalvo Irpino AV – Cari fratelli e sorelle tutti  con il cuore   e con la mente rivolti  verso Sant’Antonio per chiedergli  che abbiamo bisogno del  suo amore, del suo aiuto e del suo perdono. Ci presentiamo umilmente così come siamo in ginocchio davanti a Lui che può capire l’amore che proviamo nel seguire la Santa Messa domenicale delle ore 10,00 presso il nostro  amato Convento. Per  Lui portiamo  in seno l’amore la  gioia che ci permettono di vivere  la  vita quotidiana  tranquilla. Aiutaci, dacci speranza, perché  dalla brutta  notizia   della chiusura  del nostro Convento non riusciamo più a pregare da soli. Facci riprendere il volo, dai la pace ai nostri cuori, perché molti di noi non credono più a niente, in particolare  quando la nostra fede tentenna, il nostro cuore è nella tempesta, un diavolo notte e giorno ci innebbia la testa, specialmente quando la fede vacilla come la sabbia sconvolta dal vento. Molte  volte   i nostri occhi   lo scoglio non vedano, Sant’Antonio dei  miracoli guidaci tu. Con la messa ti sei illuminato verso il dono dell’eucarestia, confessando hai aperto la via, hai toccato le porte del nostro cuore, hai aperto  le piaghe di Cristo, la tua croce e il tuo  sudario, sei salito sul  Suo calvario per aiutare l’umanità. Aiutaci o Santo della speranza in questa dolorosa circostanza perché non riusciamo più a vivere la vita tranquilli, facci riprendere il volo, dai la pace ai nostri cuori e nelle nostre   famiglie, o  Santo della speranza, illumina  il nostro  cammino,  notte  e giorno stacci vicino perché, abbiamo veramente  bisogno di te. Facci vivere  la vita su qùesta terra con l’amore, l’ardore  e lo splendore verso Dio e verso l’umanità. Con la preghiera della tua benedizione accompagnaci   alle  nostre   abitazioni  in  grazia    di· Dio,  diciamo un Padre Nostro e un’Ave Maria, facendoci vivere una vita felice su questa terra  per sempre in eterno. Cari fratelli e sorelle sono un cittadino montecalvese che manca dal nostro paese da 77 anni, ma nel cuore ho sempre presente S. Antonio, il convento e tutti i miei concittadini.

    Lo Conte Francesco

  • Approfondimenti,  Politica

    Elezioni 12 e 13 giugno 2004 – Il dibattito politico

    Angelo Corvino

    Carlo Pizzillo

    [Ed. 22/05/2004] Montecalvo Irpino AV – Beh! a dirla tutta qualche novità ci sarebbe. Pizzillo ha rotto definitivamente gli indugi ed è passato decisamente all’attacco. Un attacco anomalo, però. Nel senso che non fa nomi e non parla di cose personali ma è decisamente incisivo. Mi spiego. Eravamo abituati alle schermaglie da campagna elettorale che assomigliavano più a misere accuse personali da borgatari piuttosto che ad un confronto serio sui programmi e sui problemi reali. Credo che tutti ricordino le supposte di……… e le repliche di …….. che sosteneva che lui le supposte le vendeva mentre l’avversario le metteva. Era questo il livello del dibattito, se così si può definire. Poca cosa per alcuni cittadini che si aspettano ben altro, sopratutto nel momento attuale, ma certamente si trattava di un modo di procedere, a dir poco, folclorico. Pizzillo quest’anno sembra aver imboccato un’altra direzione. Non attacca nessuno, non replica alle provocazioni dirette ma parla di altro. Di cosa? Dell’azione amministrativa dei suoi avversari, ad esempio. E così fa notare piccoli lavori di manutenzione ordinaria delle strade che, secondo lui, sarebbero messi in atto solo adesso che c’è la campagna elettorale. Ma dice anche di più. Parla delle cooperative sociali e replica alle imprecisioni, chiamiamole così, che gli avversari mettono in giro ad arte. Questa sera ha parlato alla “crucecchia”, la chiamo con il toponimo dialettale perché è l’unico veramente efficace (a proposito vi siete mai chiesti perché c’è la pessima abitudine di italianizzare i nomi dei luoghi o, addirittura cambiarli?). Torno al mio discorso. Alla “crucecchia” Pizzillo ha detto che se verrà eletto non chiuderà nessuna cooperativa sociale e neanche il 118, come si dice in giro, ma ha anche detto che a lui ad alla sua lista piacerebbe che i soci delle cooperative percepissero il giusto ricompenso per le prestazioni d’opera. Mentre diceva questo è stato interrotto da una voce del pubblico che parlava della necessità di cooperative vere e non fasulle. Insomma sembra proprio che il cardiologo, come lo chiamiamo sui giornali locali, abbia tutta l’intenzione di giocarsi la partita. C’è da dire che lo fa anche con stile. Certo argomentazioni politiche non ne può tirare fuori per ovvie ragioni, anche se ne ha, e di ben definite. Ma oggi corre per la carica di sindaco ed, a mio avviso, è questo il suo obiettivo. La politica credo abbia intenzione di affrontarla più in là. A proposito avete saputo della scenetta da don Camillo e Peppone che si è verificata l’altra sera? [Nativo]

  • Ricorrenze religiose

    Domenica delle Palme

    [Edito 04/04/2004] Montecalvo Irpino AV – Dopo la preparazione di cinque settimane, siamo giunti alla Domenica delle Palme e con essa entriamo nella Settimana Santa che costituisce il cuore di tutto l’anno liturgico. Nella Settimana Santa la chiesa celebra i misteri della Salvezza: l’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio compiuta da Cristo, specialmente negli ultimi giorni della sua vita, per mezzo del mistero pasquale. Egli morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato la vita. [Credit│Foto/Antonio Cardillo]

    Redazione


  • Ricorrenze religiose

    Venerdi santo

    [Edito 09/04/2004] Montecalvo Irpino AV – Per tutta la mattinata e il pomeriggio, l’altare dell’Adorazione, allestito nella navata sinistra della Chiesa Madre di S. Maria, è stato visitato da numerosi montecalvesi, che si sono fermati in preghiera davanti a Gesù Eucaristia. In serata è stata celebrata l’Azione Liturgica del Venerdì Santo con la lettura della Passione secondo l’evangelista Giovanni, il bacio della Croce e la Comunione Eucaristica.

    Redazione

    [Credit│Foto/Antonio Cardillo]

  • Cultura,  Cultura rurale

    Il dopo Scotellaro: trasformazioni epocali nel mondo contadino meridionale

    Angelo Siciliano

    [Edito 25/09/2003] Percorrendo in auto le strade del Mezzogiorno d’Italia, in Irpinia, Puglia, Basilicata e Calabria ci s’imbatte spesso in antiche masserie e case agricole abbandonate. I loro muri perimetrali resistono ancora alle ingiurie del tempo, ma i tetti sono in parte o in tutto sfondati. È la conseguenza dell’abbandono, a seguito dei notevoli cambiamenti succedutisi, anche nel mondo contadino, nella seconda metà del Novecento. Le masserie, le Regiae massariae, erano il sistema d’organizzazione feudale dell’agricoltura, introdotto nel XIII secolo dall’imperatore Federico II, giunto sino a noi a metà Novecento. Ad occhio, s’intuisce che alcune di quelle masserie dovevano essere splendide, quando erano abitate e funzionanti, con centinaia di ettari di terra coltivata. Ancora oggi se ne può immaginare il decoro e la vitalità. Orgogliosi dovevano esserne i massari, che di solito ne erano gli affittuari, perché i proprietari, nobili o borghesi, risiedevano in città. I massari, che giravano a cavallo o col calesse (sciarabàllu), da quelle case-aziende gestivano, da padroni assoluti, stuoli di lavoratori ingaggiandoli nelle piazze dei paesi. Qui si radunavano i braccianti (jurnatiéri), che accorrevano talvolta anche da paesi lontani, per offrire le proprie braccia, dove si presumeva che vi fosse lavoro a sufficienza. Alcuni dei lavoranti per i massari, per la verità solo una piccola minoranza, erano assunti a metà agosto, con contratto annuale, e prendevano servizio l’otto settembre successivo. Si trattava di ualàni (bifolchi, bovari), lavuratóri (uomini in grado di svolgere differenti tipi di lavori), serve, picuràli e purcàri (pecorai e porcai). A parte le serve, erano detti tutti uarzùni (garzoni) e facevano ritorno alle proprie case ogni quindici giorni (quinnicìna), per rinsaldare il rapporto affettivo familiare, per la pulizia personale e la biancheria pulita. Lo ualànu era il capo dei dipendenti del massaro. Ne aveva la responsabilità, era pagato meglio degli altri, ma si alzava all’una di notte, per avviare le mucche al pascolo, e di giorno arava la terra con un aratro (pirticàra) tirato da due buoi aggiogati (rétinaparìcchju di vuóvi). Grave era lo sfruttamento del lavoro minorile sia nelle campagne che nelle botteghe artigiane. Già dall’età di cinque o sei anni, i minori, senza distinzione di sesso, erano obbligati a collaborare nel lavoro dei campi con i propri familiari. Alcuni maschietti erano affidati dalle proprie famiglie ai massari, come uarzùnciéddri, e lavoravano per anni interi come pastorelli. La loro paga annuale era costituita di solito da un maialino, che era ritirato dalla famiglia di appartenenza. Crescevano da analfabeti e tornavano a casa dalle proprie madri, solo in occasione delle feste religiose importanti che si tenevano in paese. Anch’essi potevano cambiare padrone a metà agosto. I dipendenti assunti per un anno intero erano detti salariati fissi, perché avevano diritto a ricevere vitto e alloggio dal massaro. Percepivano il salario per l’intero anno, sia in denaro che in beni, cioè grano, formaggio e maialini da fare allevare alle proprie consorti. Alcuni uarzùni ottenevano, dal massaro, la concessione di qualche pezzo di terra a mezzadria (tèrr’a la parte), da far coltivare alle proprie consorti. I braccianti, invece, erano assunti a tempo determinato, manodopera per i lavori più vari: zappatori, mietitori, raccoglitori, potatori, boscaioli ecc.. Erano pagati a giornata. Un’altra figura rilevante era il fattore. Egli curava gli interessi, facendone spesso le veci, del grande proprietario terriero che aveva scelto di dedicarsi personalmente alla coltivazione delle proprie terre, senza cederle a un massaro. Le colombaie delle masserie sono disertate da decenni dagli abituali frequentatori, i colombi. In qualche edificio rurale abbandonato, se i locali a piano terra sono ancora agibili, li si adopera come deposito di macchine e attrezzi agricoli, e non è raro notare, all’esterno di queste strutture, qualche carcassa malconcia di vecchia auto, in disuso e non rottamata, monumento involontario della civiltà tecnologica che è mutata velocemente. Molte case rurali furono edificate e consegnate ai contadini con i terreni agricoli circostanti, in attuazione della Riforma agraria. Spesso i criteri spartitori erano clientelari, ma quelle case furono abbandonate quasi subito, non appena ci si rese conto che le condizioni di vita erano misere, a causa di un reddito insufficiente, anche per una minima sussistenza. Oggi sono dei ruderi e rappresentano la parte più evidente degli avanzi della civiltà contadina, che ha tentato di innovarsi soccombendo alla modernità. Testimoniano di epoche in cui il 70-80% della popolazione, per lo più analfabeta, traeva sostentamento dalla coltivazione della terra e in parte dall’allevamento del bestiame. Sono i resti di una civiltà secolare, probabilmente millenaria, a cui l’archeologia sociale e l’antropologia, se non l’avessero già fatto, potrebbero rivolgere con profitto la propria attenzione. Il tempo provvederà a cancellare tutto, sotto l’azione disgregatrice degli agenti naturali.

  • Cinema,  Cultura

    Dibattito sul film di Mel Gibson “La passione di Cristo”

    [Edito 12/05/2004] Montecalvo Irpino AV – Il grande successo dell’ultimo  film del regista americano Mel Gibson, ha favorevolmente impressionato e contagiato  l’ambiente della nostra comunità parrocchiale, tanto da impegnare il nostro parroco, il vulcanico Don Teodoro Rapuano, nell’organizzazione di un dibattito – conferenza, dove si tenterà di dare risposta alle tante domande che sono sorte spontanee nelle coscienze dei montecalvesi che hanno già visto il film e di quelli che lo vedranno nei prossimi giorni. Interrogarsi e ottenere risposte sulle problematiche che il film di Gibson  esprime, particolarmente nella “rappresentazione del dolore” delle ultime dodici ore della vita di Gesù Cristo, espressa con particolare tensione, dimostra senz’altro la volontà di compiere un salto di qualità del nostro modo di essere “cristiani”. Ed è partendo da queste considerazioni che l’incontro dibattito del 12 maggio presso il cinema Pappano si preannuncia come una seria oppurtunità da cogliere per  confrontarsi su tematiche fondamentali, come quelle della religiosità, della sofferenza, dell’amore e della tolleranza, oggi alla base della costruzione di un nuovo sistema di vita che più che mai deve essere globale ed incidere sulle coscienze di ogni essere umano. Ringraziamo Don Teodoro, per il tempismo con il quale, ancora una volta è riuscito a percepire  e ad essere pronto a rispondere alle esigenze spirituali di tutta la comunità parrocchiale montecalvese. [Nativo]

    Alfonso Caccese

  • BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI,  Chiese

    S. Maria antico splendore e nuovi misteri

    [Edito 23/03/2002] Montecalvo Irpino AV  – Dopo quarant’anni, ieri sera, grazie a don Teodoro Rapuano ed alla buona volontà dei parrocchiani, la chiesa collegiata di Santa Maria Assunta è stata riaperta al culto dei fedeli. L’Arcivescovo di Benevento S. E. Serafino Sprovieri, davanti a centinaia di persone, ha celebrato il rito della nuova dedicazione, rito che in passato hanno già officiato il cardinale Piazza, futuro patriarca di Venezia, nel 1937 e Vincenzo Maria Orsini, futuro papa Benedetto XIII, nel 1693, infatti, i vari terremoti hanno, di volta in volta, decretato la chiusura della chiesa. Ma la passione che i fedeli hanno verso la loro chiesa madre ha sempre fatto sì che essa risorgesse; in stile tardo gotico, con i caratteristici archi a sesto acuto e l’inserimento in una navata laterale di una cappella rinascimentale, attribuita da alcuni studiosi alla scuola del Bramante, la chiesa è uno dei luoghi simbolo di Montecalvo. In essa è stato battezzato ed ha celebrato messa, S. Pompilio Maria Pirrotti. L’arcivescovo Sprovieri, nel suo discorso ai fedeli, ha sottolineato la grandezza di S. Pompilio ed a proposito del Santo ha parlato del recente ritrovamento della statua della Madonna dell’Abbondanza: “In questa chiesa manca ancora la padrona di casa – ha detto riferendosi alla statua – cioè la mamma che qui è configurata nella Madonna dell’Abbondanza – a questo punto è stato interrotto da un forte applauso ed ha continuato – che porta con sé un mistero ed è colma di affetto dei nostri avi. Una statua che non è ancora qui – infatti si trova nei depositi della soprintendenza, dove è stata restaurata a tempo di record, in attesa della presentazione ufficiale – ma che lo sarà presto, con il suo mistero che può sembrare inquietante ma che è, per me, esaltante. A guardarla le nostre pupille si riempiono della sua tenerezza. I suoi occhi cosa portano? Portano l’immagine della nostra realtà fatta, spesso, di peccatori. Come i tralci tagliati, l’uomo che si distacca da Dio secca e muore, conserva le sue sembianze ma spiritualmente diventa uno scheletro ed un teschio. Guarderemo la statua con attenzione, ma non per leggervi cattivi presagi”. Alla cerimonia religiosa erano presenti numerose autorità civili tra le quali il sindaco Alfonso Caccese ed Alfredo Siniscalchi, alto dirigente della presidenza del consiglio. Tra le autorità religiose Mons. Pompilio Cristino della curia di Benevento.

    Angelo Corvino

    [Crediti Foto│...]

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI

    Le BOLLE della MALVIZZA

    Mario Sorrentino

    [Edito 00/00/0000] Viene così chiamato un luogo in cui si manifesta un fenomeno di vulcanesimo minore con fango perennemente ribollente.
    Nelle immediate vicinanze di questo posto dal nome un po’ sinistro sorgeva un tempio italico molto probabilmente dedicato alla dea Mephites, divinità importante nel pantheon sannita. Era una dea che si ritiene sia stata collegata ritualmente agli Inferi e, di conseguenza, all’alternarsi delle due opposte stagioni della primavera e dell’autunno, come la Proserpina latina e la greca Persèfone, e, cosa rilevante per la Malvizza (che era crocevia di tratturi e importante stazione dell’antico e principale tratturo tra Pescasseroli (Abruzzo) e Candela (Puglie), questa dea era anche invocata nei culti di fertilità degli animali (pecore,essenzialmente) che a milioni di capi transitavano e si fermavano in questo nostro luogo in primavera e in autunno. La transumanza che interessava il nostro territorio sino alla metà degli anni ’50 del secolo appena trascorso era cominciata nei lontanissimi tempi preistorici, prima di tutto come migrazione spontanea delle mandrie degli animali bradi, richiamati alternativamente dai prati estivi di montagna e quelli invernali di pianura; per finire poi come spostamento organizzato da parte delle varie civiltà umane succedutesi nei territori attraversati dal tratturo (da noi, popoli della civiltà appenninica, sanniti, romani, ecc.)
    Dobbiamo al dott. Roberto Patrevita, del museo archeologico di Ariano Irpino, l’informazione che alla Malvizza sono stati trovati, durante gli scavi per un invaso d’irrigazione, alcuni reperti di un tempio italico, tra i quali una antefissa di terracotta del frontone del tempio, con su effigiato in rilievo un volto femminile visto di profilo, probabilmente proprio quello della dea Mephites. Il prezioso reperto si trova attualmente a Benevento, custodito dalla “Sovrintendenza per i beni archeologici delle province di Benevento, Avellino e Salerno” (non sappiamo se visibile per il pubblico).
    Sempre il dott. Patrevita ci ha informati che templi italici dedicati alla dea Mefite erano dislocati un po’ dappertutto lungo il percorso del tratturo Pescasseroli-Candela, tra i quali, non lontani dalla Malvizza, quello di Casalbore, altra importante stazione del tratturo (probabilmente distrutto durante la seconda Guerra Punica, nel 217 a.C.) e un altro nel territorio di Greci, i cui reperti sono custoditi nel museo archeologico di Ariano Irpino.
    In una delle nostre immagini è possibile scorgere in distanza la quercia centenaria che domina solitaria gli scavi di Aequum Tuticum. [Nativo]

  • Beni,  BENI ARCHITETTONICI E PAESAGGISTICI

    Il PONTE delle CHIANCHE

    Mario Sorrentino

    [Edito 00/00/0000] Ponte romano della Via Traiana, costruito all’inizio del II° sec. d.C. Ha tre arcate ancora esistenti con una quarta arcata separata dalle rimanenti interamente e malamente ristrutturata con materiali non originali. Sussiste anche quasi integra la pavimentazione del piano viario di bàsoli, chiamati nel dialetto locale “chianche” (da cui il nome attuale del ponte). Si trova a circa due chilometri verso valle, in direzione del fiume Miscano. Serviva a superare un torrente ora quasi asciutto.
    Opera probabile di Apollodoro di Damasco, architetto e scultore, al quale la critica moderna, oltre alle opere già attribuitegli dagli scrittori classici, ha aggiunto, tra le altre, il Foro di Traiano di Roma, con la celebre Colonna istoriata con bellissimi bassorilievi sulla guerra in Dacia dell’imperatore, ed anche, per ciò che ci interessa qui, l’Arco di Traiano di Benevento (v. R. Bianchi Bandinelli, alla voce “Apollodoro di Damasco”, in “Encicl. Dell’Arte Ant.”, Roma, 1958). L’Arco di Benevento fu inaugurato dallo stesso imperatore, nel 114 d.C., come porta a capo della Via Traiana realizzata nel biennio 109-110, alla biforcazione con la più antica via consolare dell’Appia, entrambe conducenti a Brindisi.
    Una somiglianza illuminante sulla probabile attribuzione del Ponte delle Chianche ad Apollodoro è quella esistente tra le facce delle arcate di questo ponte e quello certamente più maestoso sul Danubio, a Dobreta (Romania), sicuramente opera dell’architetto preferito di Traiano, a sezioni trapezoidali, che però nel ponte di Buonalbergo possono decifrarsi con difficoltà, dato che il suo rivestimento litico originario giace disperso nel greto del torrente. [Nativo]