Cultura
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L’ospedale di S.Caterina
L’ospedale di S.Caterina sorse nel XIII secolo per volontà degli armigeri che, di ritorno dalla Terra Santa, lo costruirono addossandolo direttamente alla cerchia muraria. L’ospedale fu eretto accanto all’omonima chiesa, non più esistente, fondata alla fine dell’ XI secolo dai Crociati montecalvesi di ritorno dalla Terra Santa. L’esistenza, già a quell’epoca, di un ospedale è stata interpretata come segno del notevole livello raggiunto dalla società di Montecalvo, ove pare che si svolgesse una fiera intitolata anch’essa a S. Caterina e svolta nello stesso luogo. Più tardi sorse anche un altro ospedale, quello dell’Annunziata, ubicato fuori dalle mura. Nel 1518, grazie al conte Sigismondo Carafa, l’Ospedale e la chiesa di S. Caterina furono affidati a Felice da Corsano, religioso locale nonché fondamentale figura nella storia dell’Ordine Agostiniano. Un documento del XVII secolo rende note la quantità e la funzione degli ambienti che componevano l’ospedale, tra cui una stanza adibita a carcere, un’altra con grotta adiacente, due dormitori, otto celle oltre ai locali di servizio. L’Ospedale di S. Caterina è attualmente ricordato attraverso i suoi ruderi che mostrano, tuttavia, ancora gli ingressi : quello principale a sud, le altre entrate ad ovest. Chiaramente percepibile è l’imponente volumetria dell’edificio, in cui sono chiaramente definiti una torre tronco-conica ed un contrafforte.
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - Google Maps]
Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]
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EMIGRAZIONE TRAPPETARA
Mario Corcetto
Il fenomeno migratorio, conseguenza della grave situazione economica di tutto il Meridione, interessò massicciamente Montecalvo e, segnatamente, il Trappeto quale suo principale bacino. Dalla fine del secolo XIX agli anni sessante/settanta del secolo scorso non è esagerato dire che ci fu un vero e proprio esodo verso il Nuovo Mondo, prima, e verso l’Europa del Nord, dopo. Ancora oggi i Paesi ospitanti vedono Trappetari di terza/quarta generazione, oramai pienamente integrati, tra la loro forza lavoro e, molto spesso, tra i quadri dirigenti.
Resa necessaria da fattori esogeni, sui quali gli umili non avevano potuto incidere in alcun modo e nei quali non avevano nessuna responsabilità, l’emigrazione, complice la connaturata abitudine al sacrificio dei Trappetari, fu percepita come una soluzione ai molti mali che affliggevano la popolazione più povera del quartiere. Bene inatteso ed insperato che riscattava dalla miseria chi si trovava indietro per condizione imposta, piuttosto che per difetto di capacità o volontà.
Dal punto di vista sociale, l’emigrazione fu un eccezionale opportunità che i Trappetari seppero cogliere appieno. Uno strumento che decretò il definitivo ribaltamento dell’ordine sociale sino ad allora subito e che traghettò la classe contadina verso livelli di uguaglianza e dignità impensabili ed impensati fino ad allora.
Generalmente, i primi a partire erano gli uomini, successivamente venivano raggiunti dalle mogli, quando la situazione in loco si era consolidata ed i permessi di soggiorno consentivano il ricongiungimento con il coniuge. La Svizzera, per esempio, aveva tre tipi di permesso di soggiorno: A, B e C. Il primo, detto anche stagionale, consentiva all’emigrante in possesso di regolare contratto di lavoro, di risiedere e lavorare sul territorio elvetico per massimo nove mesi all’anno, senza la possibilità di portare al seguito la famiglia. Erano consentite visite dei congiunti, ma soltanto come turisti e per massimo tre mesi all’anno. Il permesso di tipo B, ottenibile dopo quattro anni da stagionale, consentiva all’emigrante di lavorare per tutto l’anno e di portare la famiglia al seguito. Il permesso di tipo C, che veniva concesso dopo cinque anni dall’ottenimento del B, aggiungeva a quest’ultimo la facoltà per il suo possessore di aprire un’attività commerciale o artigianale propria. In ogni caso, per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, oltre agli anni ed al gradimento della ditta, insito nel rinnovo del contratto di lavoro, veniva considerato anche il comportamento nella vita privata dell’emigrante: i cittadini svizzeri erano molto solleciti a segnalare alla polizia ogni comportamento scorretto tenuto dagli ospiti.
Non era raro, tuttavia, che, per scelta consapevole della coppia, la moglie restasse a Montecalvo a crescere la prole e che solo il marito si trasferisse, optando per una migrazione stagionale. Egli passava a casa i mesi rigidi dell’inverno ed il mese di agosto. Originando, così, quel fenomeno sociale delle cosiddette vedove bianche, che traghettò buona parte della società trappetara da una famiglia di tipo patriarcale ad una di tipo matriarcale, generando vere e proprie storture comportamentali con riflessi di non poco conto sul comune sentire. Si può pensare che mentre il padre, che notoriamente incarnava in seno alla famiglia l’autorità, orientava l’educazione dei figli verso il prioritario rispetto delle regole sociali, anche a costo di sacrificare i propri interessi. Le mamme, invece, avevano la tendenza a salvaguardare gli interessi diretti dei figli, se necessario anche a scapito del bene comune. Figlia di questo atteggiamento delle madri potrebbe essere l’abitudine a ricercare la “raccomandazione” per aggiudicarsi un lavoro o un qualsiasi altro beneficio. -
Il Palazzo Caccese
Il Palazzo fu eretto dalla famiglia Caccese nella zona che fa angolo tra l’attuale corso Vittorio Emanuele e piazza Vittoria. Palazzo Caccese è uno di quegli edifici di valore che hanno subìto nel tempo vere e proprie mutilazioni: dopo il terremoto del 1962, fu abbattuta la parte nord-est, mentre quella a nord-ovest fu demolita a seguito del sisma del 1980. Una sorte peggiore toccò ai palazzi Franco e Capozzi, che concorrevano con il palazzo Caccese alla conformazione della piazza e che furono completamente eliminati. Il palazzo era un tempo dotato di una maestosa volumetria, resa ancor più austera dalla presenza, al piano nobile, di una serie di balconi retti da mensole e sormontati da un timpano in pietra poggiante su volute, sia sul prospetto principale che sul lato. Quelli sulla facciata erano in numero di cinque e sotto, in corrispondenza, si aprivano finestre rettangolari con altre bucature quadrate inferiori. L’edificio era completato in alto da un’ elegante cornice dentellata. Di tutto ciò, allo stato attuale, é visibile solo un balcone laterale e la fascia centrale del prospetto, costituita da un balcone sovrastante un bellissimo portale . Quest’ultimo mostra, inscritto nel pannello rettangolare in pietra, un arco a tutto sesto con, alla sommità, lo stemma della famiglia.
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale]
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]Redazione
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MONTE CHIODO DI BUONALBERGO
Mario Sorrentino
[Ed. 21/09/2009] Nel silenzio di un posto ora deserto, ma una volta pulsante di vita, si possono avvertire, rimanendone catturati, delle presenze, delle realtà quasi sensibili difficili poi da rievocare con parole?
Questo posto è la cima del Monte Chiodo, sopra Buonalbergo. Occorre però, una volta giunti lassù, chiudere gli occhi e acuire l’udito; e, belati, abbaiare e guaire di cani, muggiti, urla e canti umani (echeggianti suoni che sono sopravvissuti nelle parlate della nostra valle[1] ) arrivano nel vento.
Si sale verso la cima del monte, a più di ottocento metri, e tra l’erba che riveste i sui fianchi, già da lontano si vedono biancheggiare massi rimasti nei secoli quasi segni inequivocabili, forse sapientemente connessi e allineati perché travalicassero la durata di innumerevoli generazioni e di civiltà diverse.
La cima del monte e la fascia alta che la circonda è un’area in cui appare evidentissima la tripartizione di cui parlano gli studiosi degli oppida sanniti: i resti dei muri di un fortilizio sulla spianata della vetta; quelli di un santuario a qualche decina di metri più a valle forse ri-dedicato come chiesa al tempo della successiva cristianizzazione; e le numerose concavità disseminate nella fascia del terreno ancora più in basso. Questa fascia abbraccia i tre versanti non scoscesi in cui erano erette le abitazioni degli uomini fatte con materiali scomparsi in quelle concavità perché deperibili. Sembra indubitabile che si tratti di una tripartizione di uso specializzato del suolo caratteristico degli insediamenti non ancora urbani come quelli dell’antico Sannio[2] .
Il sito di Monte Chiodo presenta come struttura principale una fortificazione di forma più o meno rettangolare (quasi un trapezio) che recinge l’intera vetta con mura di tipo ciclopico (muri a secco di pietre di varie dimensioni e non squadrate con eccessiva arte). L’area della fortificazione è sufficientemente spaziosa per accogliere e chiudere un consistente numero di capi di bestiame, il quale si sa che costituiva la ricchezza di cui i sanniti avevano cura preminente in caso di invasioni o assedi di nemici; o anche per tenerlo unito per le varie esigenze di tosatura, macellazione, mungitura ecc. delle bestie in tempo di pace. Convivevano nel rettangolo con il bestiame anche i pastori e gli armati in caso di assedio, probabilmente in capanne di cui sarebbe difficile trovare reperti. Giudicando dalla grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, che chiude il fortilizio nel lato minore in direzione sud-est, sembrerebbe che a Monte Chiodo ci si preoccupasse particolarmente dell’abbeveraggio del bestiame in caso di una prolungata chiusura nel fortilizio. -
CROGIOLO DI LINGUE E CULTURE NELLA VALLE DEL MISCANO
Mario Sorrentino
[Ed. 00/00/0000] Ora, la lingua è il veicolo fondamentale della cultura perché in essa si riflette la visione del mondo della comunità che si esprime in quella lingua. Perciò questa nostra breve ricerca riflette anche una realtà che trascende quella linguistica e illumina un aspetto poco conosciuto di queste due comunità del nostro territorio della Irpinia-Daunia, posto a confine di tre province appartenenti a due regioni (Campania e Puglia). Disponiamo di testimonianze filmate del sindaco di Faeto e del sindaco di Greci che riflettono una convivenza con le altre popolazioni presenti nel territorio circostante che è anche un esempio di pacifico confronto di mentalità, credi religiosi e costumi aventi all’origine poco in comune e che oggi possiamo definire come piena e armoniosa fusione di culture. Una fusione però che la sopravvivenza e l’amore della propria lingua nelle due popolazioni di Faeto e Greci segnalano una fedeltà alla propria identità d’origine la quale è un arricchimento che sarebbe imperdonabile mettere a rischio sia per i due paesi che quelle lingue parlano e cercano con grandi sforzi di preservare sia per i paesi di lingua italiana che li circondano.
Faeto e Greci (trascurando per ora Celle San Vito, Ginestra degli Schiavoni e altre più piccole comunità d’origine allogena presenti nello stesso territorio) sono abitate dai discendenti di gruppi militari e loro famiglie che, nel caso di Faeto, riflettono la storia di Carlo d’Angiò, re di Sicilia e aspirante al Regno di Napoli in lotta con gli aragonesi, il quale premiò (con editto del 1269) duecento soldati provenzali, dopo che questi lo ebbero aiutato vittoriosamente nell’assedio di Lucera tenuta dai saraceni, concedendo a loro e alle loro famiglie di stanziarsi nel Casale di Crepacuore, lungo la Via Traiana. Ma decenni dopo, alla ripresa delle ostilità tra angioini e aragonesi, i soldati provenzali andarono ad arroccarsi nel territorio più sicuro dell’attuale comune di Faeto, nei pressi di un cenobio e un monastero (a metà circa del XIV sec.).
Greci invece fa risalire le sue origini ai tempi di Ferrante I d’Aragona, il quale, come scrive Benedetto Croce nella Storia del Regno di Napoli: “…rimasto sovrano della sola Italia meridionale, (cioè del solo Regno di Napoli senza la Sicilia), respinse la nuova invasione angioina con una lunga guerra nella quale ebbe favorevole il papa e si procurò l’aiuto albanese di Giorgio Castriota”. Le truppe dello Scanderbeg furono determinanti per la vittoria del re aragonese nella battaglia di Orsara di Puglia, del 18 agosto 1462, quando il re aragonese sconfisse il pretendente angioino al trono napoletano. Ferrante concedette allora ai soldati albanesi di stanziarsi nel suo regno; però gli storici dissentono sulla data precisa in cui gli albanesi si arroccarono nel territorio dell’attuale comune di Greci e si mostrano incerti tra il 1462 (l’anno della battaglia di Orsara) e il 1522 (quando risulta che gli albanesi cominciarono a pagare tributi al re). [Nativo] -
La Chiesa del Carmine
La chiesa del Carmine, edificata nel 1498, fu tenuta dal 1518 dai Padri Agostiniani Ilicetani; nel 1693 il cardinale Orsini vi trasferì la funzione parrocchiale del Rettore di S. Nicola. La chiesa fu inizialmente dedicata a S. Sebastiano ma nel 1652 cambiò la sua denominazione in chiesa di Maria SS. del Carmine, come attestato da una iscrizione su arenaria conservata nel giardino del non più esistente Palazzo Stiscia, ad essa adiacente. La chiesa del Carmine fu notevolmente danneggiata dai vari terremoti succedutisi nel corso della sua storia. A seguito di quello del 1627, probabilmente fu oggetto di un primo rifacimento e risultò ulteriormente danneggiata dai terremoti del 1688, 1702, 1930 e 1962. La volontà di conservarne il ricordo,malgrado le distruzioni, rende quest’opera il classico caso di luogo di culto importante nella memoria del paese, anche se non più presente nella sua originaria sostanza, tanto che essa fu completamente rifatta dopo il 1930. In quell’occasione l’edificio fu arretrato di alcuni metri verso Sud-Ovest, occupando una parte del giardino Stiscia. Il terremoto del 1962 richiese l’esecuzione di un ulteriore restauro, mentre i lavori al pavimento e alla facciata furono eseguiti successivamente. La facciata della chiesa del Carmine contribuisce a creare le quinte dell’ampia piazza omonima, oggetto, anch’essa , di una accurata sistemazione. La facciata è anticipata da un basso corpo traforato da archi a tutto sesto di cui quello centrale, più ampio ed alto, costituisce l’ingresso. Sul retro è un liscio piano terminante a tetto inclinato e recante al centro uno schematico rosone circolare. Ancora più arretrate sono le due piccole ali laterali, anch’esse a profilo spiovente, recanti ciascuna una snella finestra arcuata. Lateralmente l’edificio è ancor più disadorno e mostra, quali unici elementi architettonici, finestre bifore inquadrate in arcate cieche a tutto sesto. La chiesa ha impianto a tre navate e conserva all’interno alcune rilevanti opere d’arte, quali statue in legno dipinto, raffiguranti San Felice Martire e la Madonna della Libera, risalenti rispettivamente al XVII e al XIV (o forse XV) secolo. Oggetto di pellegrinaggio dei fedeli arianesi, la statua della Madonna è forse proveniente dal non più esistente feudo di Corsano. Il culto di San Felice, patrono di Montecalvo, è onorato in questa chiesa anche dalla presenza di un’urna contenente le ossa del Santo. Opera notevole è anche il pulpito ligneo del XIX secolo, conservato in sacrestia insieme ad alcune porte intarsiate.
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale │Foto - Google Maps]
Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]
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Il Crocifisso ligneo nella Chiesa di S. Antonio da Padova
Redazione
Posto sul mobile da sagrestia, il crocifisso è di ottima fattura ed in buono stato di conservazione. Cristo è rappresentato, secondo l’iconografia tradizionale, con la testa reclinata sulla spalla destra, il corpo chiaramente segnato dal martirio e perizoma in vita. Il bene è tutelato Soprintendenza per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici per le province di Salerno e Avellino. Datazione: XVII secolo (1668)
[Credit│Testo - CTC Centro turismo culturale]
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LA STAZIONE DELLE PECORE DI TRE FONTANE
Mario Sorrentino
In altre schede di questo sito parliamo della transumanza e dei tratturi (v. Le Bolle della Malvizza con la scheda storica e Monte Chiodo di Buonalbergo). Però pochi punti degli antichi tracciati danno come fa la stazione del tratturo di Tre Fontane l’impressione vividissima che essa sia stata appena occupata e svuotata nel perenne alternarsi della discesa delle greggi dagli Abruzzi e la loro risalita dalle Puglie lungo il Regio Tratturo.
Sorge questa stazione tra la valle del torrente Cervaro e quella del torrente Miscano, nelle acque del quale venivano lavate le pecore prima della tosatura all’altezza del Ponte Bagnaturo, così chiamato proprio per questo uso.
Tre Fontane è precisamente una sezione tagliata nella Via Traiana, che i romani costruirono del resto anche su uno dei tratturelli preesistenti e diramantisi dal ramo principale e preistorico di quello che sarà chiamato Regio Tratturo Pescasseroli-Candela, quando venne istituita la Dogana di Foggia con un decreto di Alfonso d’Aragona, nel 1447. Abbandonata la via romana alla decadenza, i pastori si ripresero i tratturi, fra i quali questo che passava da Tre Fontane.
Ancora abitata oggi, la stazione si trasformò per ultimo in masseria, ma ha preservato tra le altre antiche strutture due grandi e lunghi abbeveratoi alimentati dalle sorgenti che, c’è da credere, sempre li hanno riempiti e li riempiono di fresca e abbondante acqua. Alla stazione delle pecore si entrava e si usciva da due ampie porte ad arco a tutto sesto che si fronteggiavano e si fronteggiano nel senso ovest/est. Lungo il lato opposto al muro di cinta in grossi blocchi di pietra, che corre in questo stesso senso, ci sono ancora gli edifici antichi anch’essi in pietra e ancora quasi integri, i quali sono prolungati dalle costruzione recenti della masseria.
Se si sta in piedi al centro della corte principale, con i piedi immersi nell’erba folta, e si chiudono gli occhi, facilmente l’immaginazione suggerisce i belati e i forti afrori degli animali, le urla rauche dei pastori e l’abbaiare dei grossi cani abruzzesi.
Andiamo a visitare il cortile più piccolo verso nord, passando sotto un portico ad arco che sorregge ancora l’abitazione dei “signori”, come li chiama il figlio della proprietaria della masseria. Soggiornavano lassù una volta i padroni delle greggi che le seguivano a cavallo, e dopo, in tempi più recenti, i proprietari della masseria. In questa corte piccola c’è ancora la stalla riservata alle bestie “partorienti” e ai nuovi nati destinati a rimanere indietro rispetto al grosso che ripartiva. La stalla ha dei compartimenti delimitati da muretti di pietra per la “comodità” delle singole madri e dei loro piccoli.
Prima di partire beviamo ancora dai getti degli abbeveratoi l’acqua gelata; e ci sembra di compiere un rito che se ancora ristora non ha per noi l’importanza vitale, quasi sacra, che aveva per quei pastori.Francesco Cardinale ed io (Mario Sorrentino) ringraziamo Gaetano Caccese che ci ha fatto scoprire Tre Fontane guidandoci sin lì.
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IL PONTE DI SANTO SPIRITO, DETTO ANCHE “DEL DIAVOLO”
Mario Sorrentino
[Ed. 00/00/0000] Rudere del pilone di un ponte, con gli innesti delle arcate che una volta vi si appoggiavano; il ponte è detto anche “del Diavolo”, poiché in una leggenda agiografica, tra le altre cose, si narrava che era stato eretto e distrutto magicamente in una sola notte dal Diavolo. Lontano da ogni opera dell’uomo, alto e scabro, lo spuntone atterriva veramente i viandanti creduloni che non potevano evitare di passarci vicino di notte.
In realtà il pilone è tutto ciò che resta di un ponte romano che, come quello delle Chianche, nel territorio di Buonalbergo sorgeva lungo la Via Traiana, costruita agli inizi del II sec. d.C. per collegare più celermente Benevento a Brindisi, rispetto alla più antica Via Appia che portava ugualmente a Brindisi, ma passando da Aeclanum.
Il Ponte di Santo Spirito era probabilmente di dimensioni maggiori rispetto a quello delle Chianche, poiché doveva superare in questo caso un fiume, e un fiume dalle rive molto scoscese, il Miscano.
Nel greto ciottoloso di questo corso d’acqua, diventato ai nostri giorni una “jumara” secca, fu rinvenuta, qualche decennio fa, non lontano dal rudere del ponte, una pietra miliare di dimensioni non comuni, forse perché accoglieva nell’epigrafe informazioni anche sull’opera e sul committente in forma celebrativa. La lapide si trova ora in località Malvizza di Sopra, ma la sua sede originale era stata molto probabilmente uno dei capi del ponte.
Come si può vedere nelle nostre foto della lapide, si legge appena qualcosa dell’epigrafe. Troppo poco per ricostruire il suo senso completo. Comunque, il termine mutilo “–ONTES” che vale (P)ONTES, senz’altro accusativo plurale, e BRVNDISIVM possono farci azzardare l’ipotesi che nell’epigrafe si parlava di tutti i ponti costruiti da Benevento a Brindisi a spese di qualcuno, se “–(I?)A – SVA” si ricostruisce con (PECVNI)A SVA, cioè “con i suoi soldi”. Mentre la doppia abbreviazione “P – P”, “Pater Patriae” (“Padre della Patria”) è uno dei titoli ufficiali dell’imperatore come attesta l’epigrafe dedicatoria dell’Arco di Traiano a Benevento.
Chi poteva avere dunque tanti soldi se non il munifico M. Ulpio Nerva Traiano, che per finanziare tutte le sue bellissime e grandiose opere a Roma (il Foro con la famosa Colonna Ulpia e i Mercati coperti, le Terme con cui ricoprì la Domus Aurea di Nerone) e porti, ponti e archi ad Ancona, a Ostia, in Romania, a Benevento e in tanti altri posti stava quasi per dichiarare fallimento, imperatore e tutto che era?
Non ci risulta che l’epigrafe del Ponte del Diavolo sia stato registrato nel Corpus Inscriptionum Latinarum (C.I.L.)
[Nativo][Correlato nel SITO│Ponte di S. Spirito o del Diavolo]
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Il Palazzo Pirrotti
Il Palazzo Pirrotti in Montecalvo ha un’importanza rilevante per un duplice ordine di motivi. Il primo è rappresentato dall’evidente valore storico-artistico dell’edificio, testimonianza di una tipologia fondamentale per lo sviluppo urbanistico del paese, cioè quella del palazzo signorile. Il secondo, prettamente storico, é legato all’importanza dell’edificio come residenza della famiglia Pirrotti, di stanza a Montecalvo dalla fine del XV all’inizio del XX secolo. In questo palazzo, infatti, ha avuto i natali, il 29 novembre 1710, Pompilio Maria Pirrotti, elevato agli altari per la sua intensa attività di insegnamento e di apostolato. Annessa al palazzo é la moderna chiesa, dedicata al santo, ricavata in età fascista nei locali al pianterreno, mentre tra la chiesa ed il cortile é ubicato il suo archivio. Rimaneggiato nel tempo, l’edificio conserva il suo elemento più caratterizzante e cioé l’antico portale con arco a tutto sesto, in pietra, definito, come i piedritti, da una successione di conci ben lavorati, aventi due diverse lunghezze e disposti alternativamente. Tangente in sommità corre un’alta fascia bianca di coronamento, interrotta al centro dallo stemma della famiglia Pirrotti realizzato anch’esso in pietra. Lo stemma raffigura una donna con i capelli raccolti da un nastro e spioventi sulle spalle, che reca una torcia accesa nella mano destra ed un ramo con cinque rose nella sinistra. La figura é completata da bande bicolori che corrono al di sotto della figura e da due ali che sovrastano la medesima a mò di corona. Il simbolismo dello stemma dovrebbe essere interpretato come un riferimento alle origini del nome “Pirrotti”, cui si riconosce un legame con Pirro, del quale é richiamato il breve dominio in Macedonia ( rappresentato dalle cinque rose che indicherebbero i cinque anni di regno) mentre la torcia richiamerebbe la radice greca “pur” (=fuoco) in corrispondenza con il nome Pirrotti. Sul resto della liscia facciata intonacata emergono alcune lapidi apposte come tributo al santo. Il portale, chiuso da un solido battente in legno, immette nel cortile interno anch’esso appartenente all’originario impianto. Sugli architravi dei portali è possibile leggere due motti araldici della famiglia Pirrotti: “Nobiliora altiora petunt” e ” Potius mori quam foedari”. Originale è, altresì, il pavimento della stanza dove nacque il Santo, conservato sotto il tetto dell’edificio. Altra parte superstite è quella dei sotterranei, costituiti da vani aperti nel tufo grezzo, adibiti a cantine, su cui poggiano le fondamenta della casa.
Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]