Poesia

  • Cultura,  I confinati,  Poesia

    Marko Kravos in visita a Montecalvo Irpino

    Redazione

    [Edito 16/05/2019] Domenica 11 maggio 2019, a Pesco Sannita nel consueto Festival Ethnoi (culture, linguaggi e minoranze), giunto quest’anno alla dodicesima edizione, tra gli eventi proposti era previsto un incontro con la poesia di Josip Osti, poeta nazionale sloveno, e Marko Kravos, poeta italo-sloveno. Marko Kravos è il figlio di Josip (Giuseppe) Kravos (S. Croce di Audissina 5 agosto 1909 – Trieste 13 aprile 1972), il quale, durante il periodo dei noti campi fascisti, venne arrestato il 5 settembre 1940 a Cagliari, fu trasferito nelle carceri di Trieste e successivamente venne “condannato” all’internamento sull’isola di San Domino (Tremiti) dove rimane dal 27 marzo 1941 al 7 gennaio 1942, quando, in seguito a una richiesta di trasferimento per motivi di salute (deperimento psicofisico) viene inviato nella località di internamento di Montecalvo Irpino, in provincia di Avellino. Ed è qui che, nel 1943 nasce Marko Kravos, importante poeta e scrittore. Approfittando dell’evento in programma a Pesco Sannita, Francesco Cardinale e Antonio Cardillo, Presidente e Vice Presidente dell’Associazione montecalvese Lomax & Carpitella, si sono adoperati affinché l’illustre concittadino nato a Montecalvo, ritornasse nel paese che gli aveva dato i natali, e dal quale mancava dall’età di tre anni, anche se nei primi anni novanta vi passò in maniera fugace ed anonima, senza, però, potersi soffermare a contemplare i luoghi cari della sua infanzia. Ad accompagnare a Montecalvo Marko Kravos e Josip Osti, altro grande della poesia contemporanea, vi erano Sergio Iagulli e Raffaella Marzano, della “Casa della poesia” di Baronissi ed editori dei due poeti. Dopo aver intrattenuto gli ospiti con un pranzo a base di piatti tipici locali presso un noto agriturismo del luogo, vi è stato l’incontro con il Sindaco di Montecalvo, Mirko Iorillo, al quale Kravos ha consegnato, in dono, un prezioso volume, con dedica autografa, della sua importante produzione poetica che sarà a disposizione della collettività montecalvese. Successivamente Kravos e i suoi compagni, sono stati guidati attraverso un percorso alla riscoperta dei luoghi in cui era nato e in cui aveva vissuto i primi anni dell’infanzia. La visita è stata mediata sapientemente dallo scrittore e giornalista Mario Aucelli, che in uno dei suoi volumi sulla storia di Montecalvo, aveva dedicato ampio spazio alle vicissitudini legate a Josip Kravos, papà di Marko. E’ doveroso ricordare che i primi contatti con la famiglia Kravos, e precisamente con la sorella di Marko, l’autrice Bogomila Kravos, furono avviati nei primi anni del duemila da Alfonso Caccese attraverso il sito Irpino.it e proseguirono in seguito con Mario Aucelli. L’associazione Lomax & Carpitella, da sempre sensibile alle vicende legate al paese di Montecalvo Irpino, ha permesso che avvenisse questo importante “ricongiungimento” e ha documentato l’importante visita con foto e video. [Nativo]

    Marko Kravos in visita a Montecalvo Irpino

  • Cultura,  I confinati,  Poesia

    Dal confino in Irpinia al ritorno a Trieste nei versi di Marko Kravos

    “Esce per Multimedia Edizioni “Cera matria” l’ultima raccolta del poeta di madrelingua slovena. Un uso poliedrico del linguaggio che impone una riflessione sulle origini e la contemporaneità”

    [Edito 14/02/2023] Trieste – C’è un verso nell’ultima raccolta di Marko Kravos che recita esattamente così: “Di casa, io, dove sono? Il mio luogo natio dov’è?”. Così dall’introduzione di “Cera matria” (Multimedia Edizioni, pag. 128, euro 13) apprendiamo la storia di Kravos, ai più conosciuto come il poeta sloveno di Trieste. Ce la spiega Sinan Gudžević, prefattore del libro e sensibile conoscitore delle origini del nostro poeta. Kravos è nato in Irpinia, a Montecalvo, dove il regime fascista aveva confinato la sua famiglia: «Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato aveva condannato Josip Kravos, il padre di Marko, al campo di prigionia sull’isola di San Domino per internarlo poi, insieme alla famiglia, a Montecalvo Irpino» dove appunto il poeta nacque. Paese nativo in cui l’autore non è mai tornato, escluse due volte.

    L’ultima occasione fu per un reading insieme al poeta Josip Osti, nel 2019. Il confino da Trieste della famiglia Kravos è solo la prima parte della storia. Il rimpatrio fu un viaggio per nulla facile. Non è stato un rientro immediato insomma. Prima si trattò di trascorrere un anno intero nella base degli alleati a Bari, cui fece seguito l’imbarco sulla nave per Spalato. Dopo di che la famiglia fu sistemata nella cittadina di Castelnuovo, dove rimase fino a maggio del 1945, quando una nave della Brigata d’oltremare li riporterà finalmente a Trieste. Ma non ritroveranno la loro casa, distrutta dalle bombe degli alleati. Forse da questa storia ci si può avvicinare, con una certa cautela alla poetica di Marko Kravos, sempre incline a mostrarci le diverse prospettive della vita, le inclinazioni che può assumere improvvisamente, i rovesciamenti inaspettati che l’esistenza ci riserva. C’è forse un’unica fonte di salvezza che è il “verbo” appunto, la parola, il linguaggio. In “Cera matria” (che è un gioco di parole intorno al sintagma pappa reale) Kravos scende in verticale proprio nelle profondità della lingua. Ma lo fa con la sua solita leggerezza, con le possibilità conoscitive che dà anche l’ironia. Kravos formula così una struttura in quattro sezioni, dove a ognuna è riservata una parte della giorno, dagli albori al crepuscolo. E dove c’è una novità stilistica, alle sestine in versi sciolti, si accostano dei “bozzetti”, ovvero dei prosimetri, a una poesia quindi segue un bozzetto, non necessariamente connessi. Ciò che caratterizza la voce del poeta è proprio l’uso poliedrico del linguaggio: non va solo a scavare l’origine di identità e parole, ma lo fa affidandosi a una dimensione materica, è questo è sempre stato nelle corde del poeta, molto più fisico che metafisico. Così le metafore ci restituiscono il corpo fatto di carne e sangue, ma anche sede paradossale di segni. Tre ci dice sono le fonti della lingua: testa, cuore e bocca, non a caso messi in relazione con tre poteri: giudiziario, legislativo, esecutivo. Ciò che è fisico e ciò che è segnico riescono a trovare la loro espressione in fiato, voce, suono, facendo però attenzione che nulla sarebbe possibile senza un’altra dimensione, quella del silenzio. Di più: anche la punteggiatura, le preposizioni, le coniugazioni possono assumere il significato di una verità che unisce o divide. Ma nonostante “Cera matria” ruoti intorno a uno spazio con tutta evidenza (anche) metalinguistico, Kravos non è mai astratto. Ci racconta il verbo, certo, ma ci racconta anche la storia, l’uomo e i diversi uomini che differentemente sfruttano le parole. Ci racconta il Coronavirus, non privo di ironia, la paura della fine, ma anche le possibilità conoscitive dell’umano, scevre da ogni trascendenza, più inclini alle infinite possibilità che rivelano le neuro scienze, tutto concorre al “vero”, i sensi e i nuclei mnemonici della mente: «quando questi artefici si danno al connubio, nasce l’immaginazione» e chissà, forse un domani «diranno che tutto viene generato nel sogno o nell’immaginazione». Tuttavia, ricorda il poeta, è necessario ricordare che viviamo nell’epoca «del non sapore, un’era digitale» dove quel “sapore” è così assonante con “sapere”. [Nativo]

    Redazione

    [Crediti│Testo: “Il Piccolo” di Trieste]

  • Cultura,  Poesia

      IL VINO E IL GRANO

    A questa poesia, il 18 maggio 2003, è stato assegnato il
    1° PREMIO per la Sezione a tema libero in lingua italiana, al 4°Concorso di poesia
    “INCONTRI VALLE DEI LAGHI 2003”, Padergnone (TN).
    Angelo Siciliano

    [Ed. 08/11/2003]

     

    IL VINO E IL GRANO

    Rammento il colore del grano.
    Ci fu concesso di familiarizzare
    col biondo di rena sulle colline
    i rosolacci i rari fiordalisi
    le perle di sudore dei mietitori
    le tante dicerie sulle ragazze
    il fiasco di vino fresco di cantina
    passato di mano in mano
    ridendo da bocca a bocca
    pieno e d’improvviso vuoto
    di linfa di vite e di terra
    a fare brio e dare forza
    il falcetto di affilati denti
    ad ingannare le janare*
    nelle notti di plenilunio.
    Torna la civiltà biologica
    paesaggi curati nei dettagli
    il bello involontario dell’eden
    al pettine delle braccia
    filari di viti coi grappoli doc
    il turismo enogastronomico.
    Erbicidi non hanno inaridito
    la memoria ai nonni ma i loro
    curiosi aneddoti s’imbattono
    spesso in tappati orecchi.
    Chissà, un tacito rifiuto forse
    al ricircolo delle parole.

     

     

    La critica di Italo Bonassi

    Molto bella, moderna e simpatica questa poesia di sapore bucolico, in un inno dedicato alla natura, che prorompe nei versi col colore del grano, con i rosolacci ( detti volgarmente papaveri ) che arrossano i campi, con gli azzurri fiordalisi, con la sapiente fatica dei mietitori allietata dal vino fresco di cantina. Ma, in questo contesto squisitamente agreste, in questa poetica immagine che ci ricorda Virgilio con le sue magnifiche Georgiche, s’innesta il dolceamaro progresso della civiltà biologica, con i suoi risvolti artificiali di paesaggi curati con sapiente ma anche innaturale ordine dall’uomo, con le mietifalciatrici, con i trattori, con i filari regolari quasi geometrici, coi vigneti dove l’erba è sacrificata al diserbante, col gaio. festante ma anche vociante e rumoroso turismo enogastronomico. E il pensiero del poeta corre ai tempi ormai lontani in cui i nonni zappavano con santa pazienza tra le vigne un’erba che subito dopo ritornava prepotente a ributtare.Tempi belli? Mah…Forse per noi, che non conosciamo la fatica dei campi, che vediamo l’immagine poetica dei papaveri e dei fiordalisi, che fanno invece disperare il contadino. E il poeta lo sa, ma continua a sognare una natura più natura, anche se si rende conto che l’uomo ha le sue esigenze, che non sempre coincidono con quelle del suo ambiente. [Nativo]

  • Poesia,  Spigolature

    A Rosina

    Antonio Stiscia
    Scriver dei versi, ad un vero somaro
    È stato il mio cruccio, più unico che raro

    E quando ho saputo che era asinella
    La rima si è sciolta più sinuosa e bella

    Si chiama Rosina, ed è incoraggiante
    Dalle lunghe orecchie e dal passo ondeggiante
    È la regina indiscussa della Contrada Cesine
    Custode gelosa di tante piccole stradine

    Esempio di forza e di sopportazione
    Di lavoro incessante e di dedizione
    Graziosa e gentile la dolce asinella
    Col suo andar lento, sotto l’umile sella

    Compagna di fatiche e discreta confidente
    Testimone di drammi e conduttrice prudente.

    Il progresso ne ha segnato la messa in pensione
    Sostituita dalle macchine e con un nuovo padrone

    In un mondo che è tutto falso e taroccato
    Dove l’ignorante è quasi sempre laureato
    Ci piace pensare che se la cultura, è dell’uomo la buccia
    Per conservarla bene, dobbiamo perseguire la ciuccia

     

    [Nativo]

  • Beni etno-antropologici,  Cultura,  Cultura orale,  Poesia,  Teatro

    Commedie, Sonetti e Madrigali nella Montecalvo del ‘700

    Antonio Stiscia

    Chiassetto Caccese – Teatro
    Portale con le maschere della C. e della Tragedia
    (Asportato dopo il terremoto del 23/11/1980)

    Archivio Fotografico Biblioteca Comunale

    [Ed 00/11/2007] Il 15 Agosto 1748 nella Collegiata di Santa Maria Assunta in Cielo, si tenne una Accademia, vale a dire una manifestazione artistico-letteraria in onore della Vergine, nel giorno della sua Assunzione, con la recita di poesie e canti e la rappresentazione di una commediola sacra, col solo unico fine di magnificare la grandezza di Dio e della sua soavissima Madre.

    Il manoscritto che raccoglie i componimenti letterari, è straordinariamente importante, non solo per il contenuto delle opere, di ottimo livello e grande raffinatezza culturale,ma soprattutto per il suo utilizzo come libretto d’opera,visto che l’Accademia è stata rappresentata più volte, alla presenza della moltitudine dei fedeli e all’interno della stessa Collegiata,per il qual motivo ben si spiega l’utilizzo della lingua volgare e addirittura del dialetto montecalvese.

    Il madrigale, (di cui alla riproduzione dattiloscritta) dedicato alla Vergine Immacolata, di chiara matrice popolare, mantiene la freschezza e la immediatezza tipica delle opere dialettali e occupa un suo non casuale posto nel manoscritto, come nella rappresentazione.

    La particolarità del componimento sta tutta nelle parole,alcune perdute, e nella splendida semplicità di accattivanti versi,che sono propri della tradizione musicalpopolare montecalvese che ha sempre accompagnato,evolvendosi, le vicende umane, politiche,storiche e religiose del paese.

    Un popolo di artisti e di poeti ?

    Raffigurazione in pietra della Maschera da Commedia sec. XVIII Segnalava visivamente il percorso che conduceva a Teatro.
    Corso Umberto-Piazzetta Salines-Chiassetto Caccese

    Ci piace pensare di si,sebbene si debba parlare più di spirito libertario, affiancato da una visione critica e speculativa dell’esistenza,in un periodo storico il ‘700,dove la presenza di indubbie genialità nelle arti e nelle scienze,trova quasi naturale espressione nella spiritualità alta e profonda di San Pompilio Maria Pirrotti.
    Montecalvo fin dal tardo 500 ha avuto un teatro dove si rappresentava la commedia dell’arte e questo la dice lunga sull’atteggiamento avanguardiale del paese.

    La presenza di poeti, filosofi, storici, artisti in genere, legati alla ricca borghesia e nobiltà locale e agli artisti di Napoli e Roma, porterà ad una singolare evoluzione del paese che diventerà, inconsapevolmente, una isola felix della cultura meridionale e che troverà nel 700 la massima esplosione di stile e di partecipazione, anche popolare.
    A significare quanto fin qui detto basti ricordare l’esistenza in Montecalvo del Sacro Collegio d’Arcadia,un movimento letterario straordinario,che favorì la presenza di uomini di cultura, attratti più dalla vita campestre che non da quella cittadina.

    Questa mancata fuga di cervelli,segnò il proliferare di giuristi, teologi,storici e storiografi,poeti e pensatori, attori e musicisti,in una spasmodica e continua ricerca di risposte al vivere,sotto il comprensivo e tutelante mantello di un clero forte e saggio,chiaramente illuminato se non addirittura illuminista.

    La tradizione teatrale è continuata per tutto l’800 e ne sono prova tangibile i drammi a carattere sacro sulla vita di San Francesco e Sant’Antonio,scritti e recitati da Montecalvesi,senza dimenticare il sacro fuoco del Risorgimento.

    Il novecento vede la fioritura del teatro leggero e la nascita,nel ventennio,di compagnie teatrali studentesche,organizzate e dirette da personale docente(Maestro Mario La Vigna…) e su testi di autori locali( Signora Angela Pisani Cavalletti).

    Dopo la II guerra mondiale si riprenderà a far teatro,con compagnie instabili di giovani,nel mentre andrà perduto l’interesse per le arti.

    Da circa 30 anni viviamo di ricordi,annoiati spettatori di un teatrino politico avvilente,perfido avido e scioccante, dove l’ennesima replica si connota di pantomime incomprensibili,costretti,comunque, a pagare un biglietto salato,non avendo,ahimé,nemmeno più il teatro.

    Sic transit gloria mundi.

    MADRIGALE
    Recitata nella Collegiata di Santa Maria Assunta in Cielo Montecalvo 15 Agosto 1748

    (Manoscritto in Archivio Palazzo Stiscia)

    Che s’allumma, si separa
    Allegro ogn’uno, e faccia festa
    Ca la ‘ncoppa l’Ammaculata nosta
    E’ fatta mo Regina da lo figlio,
    e chi la vede assettata conna crona
    certo pe l’allegrezza mi scquacquiglio.
    Non midite ca lo cielo stace bellone
    Persinche la Zitella vede lo sole
    E bui allummaccari, se non potiti tutti fa li lumi
    Dicite schito rosari, a ragiuni.

    * Questo piccolo scritto è dedicato all’indimenticato amico Giuseppe Lo Casale, di cui oltre alla perizia storica, ci manca l’affabile sorriso e la irripetibile geniale  regia di tante Commedie Teatrali.
    [Nativo]

  • Cultura,  Poesia,  Storie di Emigrati

    L’ olmo di Piazza Carmine

    Antica e non spaziosa
    è la piazzetta,
    ma le dà grazia
    viva un olmo secolare….
    Quell’olmo è pari a bussola;
    guida i passi
    di quanti, stanchi, tornano al paese,
    al tramontar del sole.
    Ed io ricordo il cinguettio
    festoso degli uccelli
    e le fresche auree
    che lievi a sera
    carezzano la terra dei miei avi.
    Ricordo, ed il rimpianto
    m’invade il cuore.
    Caro, vecchio olmo
    alto, maestoso,
    mi par di sentire
    il fruscio delle tue foglie,
    che era canto
    delicato e lieve…….

    [Bibliografia di riferimento]
    [Placido A. De Furia Ricordi di un emigrato,  Morton P.A. USA, 1949]
    [Cavalletti G.B.M. – Stiscia A., Montecalvo – Album di Famiglia,  Pro Loco Montecalvo, Calitri, 1981]

    Redazione
  • Poesia

    Lu Trappitu

    Angelo Siciliano

    [Nativo]

     

    LU TRAPPITU
    Lu Trappìtu s’affaccia
    ‘ncòpp’a lu Fuóssu Palùmmu
    andó c’àbitunu ciàuli e cristariéddri.
    Li ccàsura, agguattàti ‘ncòpp’a lu ttufu,
    pare ca stannu ‘nd’à nu prisèbbiju.
    Tiéninu grùttira lònghe
    andó li cristiani ci tinévunu
    ciucci, puórci, cucci e ccaddrìni.
    Cèrtu rótte, si dice,
    jévun’a ffinì sótt’a lu palàzzu ducale,
    andó ci stéva lu duca Pignatèlli.
    A la matìna, li campagnuóli
    jinchévunu li ccésti,
    caricàvunu li bèstiji
    e ghjévun’a Magliànu
    o a la Trigna a fatijàni.
    Dòppu lu tirramóte di lu Sissantadùji,
    ‘sti ccase so’ ttut’abbandunàte:
    c’àbitunu li cciàvéttuli.
    Pàrlunu di li Sassi di Matera,
    pi ttilivisióne o ‘ncòpp’a li giurnali.
    ‘Sti ppréte di lu Trappìtu
    accóntunu puru lóru
    tanta stòriji antiche:
    nu’ vi pare di vidé
    tanta vècchje cu’ la pannùccia
    affacciàt’arrét’a li ppurtéddre?

    IL TRAPPETO
    Il Trappeto affaccia
    sul fosso Palummo
    dove dimorano taccole e gheppi.
    Le case, appollaiate sul tufo,
    pare che siano in un presepio.
    Hanno grotte lunghe
    dove gli abitanti vi tenevano
    asini, maiali, conigli e galline.
    Di alcune grotte, si racconta
    che arrivassero sotto il palazzo ducale,
    dove abitava il duca Pignatelli.
    Ogni mattina, i campagnoli
    riempivano le ceste,
    caricavano le bestie
    e si recavano a Magliano
    o alla Trigna a lavorare.
    Dopo il terremoto del 1962,
    queste case sono tutte abbandonate:
    vi abitano le civette.
    Parlano dei Sassi di Matera,
    per televisione o sui giornali.
    Queste pietre del Trappeto
    raccontano anch’esse
    tante storie antiche:
    non vi sembra di vedere
    tante vecchie col panno (in testa)
    affacciate dietro le portelle?

    [Bibliografia di riferimento]
    [Siciliano A. Lo zio d’America, Menna, Avellino, 1988]

  • Cultura,  Poesia

    “Lu Communi” poesia di Angelo Siciliano

    Angelo Siciliano

    [Ed. 27/01/2005] Zell TN – L’edificio comunale montecalvese, col suo aspetto architettonico così diverso e inconsueto rispetto agli altri palazzi del paese, fu edificato dopo il terremoto del 1930, secondo lo stile littorio elaborato dall’architetto e urbanista del regime, Marcello Piacentini, che tanto contribuì allo sventramento di Roma. Strutture architettoniche dello stesso tipo, spesso più elaborate e con intenti celebrativi e monumentali, sono presenti in tutte le città italiane. Il terremoto distruttivo del 1930 causò, solo a Montecalvo Irpino, la morte di 83 persone. Poi vi sono stati altri due terremoti distruttivi: quello del 1962, che provocò indirettamente la morte di una signora, e quello del 1980, che non provocò vittime a Montecalvo, ma ne causò quasi tremila nel resto dell’Irpinia e in Lucania.
    Delle due foto del Comune di Montecalvo, una l’ho scattata nel 2004, l’altra, a cui ho dato i colori, è del 7 aprile 1946 e appartiene all’archivio di Agnese Cristino, vedova di Oreste e nuora di Pietro Cristino, primo sindaco democratico di Montecalvo Irpino, eletto proprio nell’aprile del 1946. [Nativo]

    LU CUMMUNI

    Lu cummùni, nu palazzu fatt’a shcàtuli:
    la pìccula ‘ncòppa, cu lu llòrgiu,
    la ròssa sótta, cu lu barcóne andó s’affacciava
    chi cummànnava e ss’éva fa vidé.
    Fu lu rijàlu fascista pi li tanta
    muórti di lu tirramóte di lu Trènta,
    ca facètt ‘nchjanià palazz’e chjiésiji.
    Pócu luntànu, dòppu lu tirramóte
    di lu Sissantadùji, sfrattànnu la cantina
    di nu palàzzu, truvàrnu li shcatulètt fràcidi
    ca lu padrone s’er’ammucciàt’a lu tirramóte
    di lu Trènta, ‘mméce di li spinzià a la gente.
    Ma puru dòppu lu Sissantadùji
    e dòpp’ancóra, ci fu chi si n’apprufittàvu
    cu lu magna magna: si cagnàva partìtu,
    si facéva carna di puórcu,
    paréva ca ‘n s’abbuttàvunu maji.
    ‘Nd’à stu municìbbiju, da quannu
    ci trasètt lu pudistà, dint’a lu suttànu,
    c’abbijàrn’ammintunà carti e ccu lu tiémpu
    s’ave chjinu com’a n’uóvu.
    Si unu cerca cóccósa ddrà ddintu,
    jà com’ascià n’ agu ‘nd’à nu pagliàru,
    ci pó’ ttruvà puru nu nidu di sórici.
    Dòppu la uèrra, sótt’a lu cummùni ci stéva
    la Càmmira de’ llavóro e ‘mmiézz’a la chjazza,
    a la stagióna, s’accugliévunu li mititùri ‘la séra
    ca li massàri si li mminévun’a ccapà.
    D’ati tiémpi, si mittévunu l’uómmini‘ncòppa
    a li fiérri: accuntàvun’a ffil’a ffilu quéddru
    ca l’era capitàtu a li ddóji uèrri mundiàli.
    Passàvunu cu li ciucci cu la sàlima li cristijàni,
    uagliùni ch’alluccàvunu, fèmmini cu lu varrìlu
    o na césta ‘n capu, sèrivi cu li bórzi chjéne,
    cócche ssignóre cu la códa crécca.
    Po’ cócchidùnu si shcaffàvu ‘nd’à li cchjòcchi
    ca ‘stu paese era viécchju e ssi di n’ómu
    viécchju si ni scòrdunu, li ccàsura vècchji
    s’abbandónunu. Accussì lu paese s’ave dillatàtu
    da quà e da ddrà pi ddint’à li tterr’attuórnu.
    Si tatóne lu vidéss mo’ da luntànu, dicéss
    sicuramènt ca pare Nàbbuli pìcculu.
    Ma li genti so’ ccuntènt di ‘sti ccasi nóvi
    a lu mmarànu, ‘nfacci’a bbòrija?
    Da quannu puru lu Trappìtu ave muórtu
    pi ‘nnant’a ‘stu municìbbiju, a la sera,
    ci passa sulu cócche ccanu spèrzu.

    IL MUNICIPIO

    Il municipio, un palazzo fatto a scatole:
    la piccola sopra, con l’orologio civico,
    la grande sotto, col balcone da cui s’affacciava
    chi comandava e doveva farsi vedere.
    Fu un regalo fascista per i tanti
    morti del terremoto del 1930,
    che fece abbattere palazzi e chiese.
    Poco distante, dopo il terremoto
    del 1962, svuotando la cantina
    di un palazzo, si rinvennero barattoli corrosi
    che il proprietario aveva imboscato al terremoto
    del 1930, invece di distribuirli alla gente.
    Ma anche dopo il 1962
    e dopo ancora, vi fu chi si approfittò
    con accaparramenti: si cambiava partito,
    c’era chi se la sapeva godere,
    mai mostrando d’essere soddisfatto.
    In questo municipio, da quando
    vi entrò il podestà, nel seminterrato,
    iniziarono ad accumulare documenti
    e col tempo s’è riempito come un uovo.
    Se uno va per qualcosa lì dentro,
    è come cercare un ago nel pagliaio,
    vi potrebbe trovare anche un nido di topi.
    Dopo la seconda guerra, sotto il comune vi era
    la Camera del lavoro e nella piazza,
    d’estate, vi si radunavano i mietitori di sera
    per essere ingaggiati dai massari.
    In altre stagioni, i reduci si sedevano
    sulle sbarre di ferro: raccontavano con ordine
    le loro disavventure nelle due guerre mondiali.
    Passavano con gli asini con la soma gli uomini,
    ragazzi che schiamazzavano, donne col barile
    o una cesta sul capo, serve con la borsa piena
    della spesa, qualche borghese altezzoso.
    Poi qualcuno si incaponì
    che questo paese era vecchio e se un uomo
    vecchio va dimenticato, le case vecchie
    si abbandonano. Così il paese s’è dilatato
    di qui e di là nei terreni coltivi tutt’intorno.
    Se il nonno lo osservasse ora da lontano,
    direbbe sicuramente che è una piccola Napoli.
    Ma la gente è contenta di queste case nuove
    senza sole, esposte sempre a bora?
    Da quando anche il Trappeto è morto
    davanti a questo municipio, di sera,
    vi passa solitario qualche cane randagio.

  • Cultura,  Poesia

    Nell’antologia “Fermenti” c’è A. Siciliano

    [30/09/2004] Il volume 7 di FERMENTI, l’antologia di poeti italiani contemporanei edita dal Libro Italiano World- Ragusa-2004-e12, accoglie quindici liriche di Angelo Siciliano, distinte tutte da una dolente visione della vita e da una tormentata coscienza dell’uomo scorto nel turbinoso fluire della storia.Il poeta coglie nei suoi versi, al di là del cangiante alternarsi dei fenomeni in cui si proietta e sovente si smarrisce la nostra vita, la trama segreta ed essenziale che interessa l’eterno e il caduco, il divino e l’umano, l’ideale e il reale in un dramma che sempre si rinnova e ripropone, nuovo ed antico al tempo stesso, aperto ad accogliere le sempre rinascenti illusioni umane di eternità ed onnipotenza.Tutto è luce, allora, ai nostri occhi che, però non l’intendono più perché, ignari dell’ombra, non hanno più la consapevolezza e la coscienza del limite; vale a dire che tutto ci è chiaramente comprensibile eppure tutto ci resta arcano ed ignoto.Il divino si fa storia ( vedi le liriche ARCHEOLOGIA DIVINA- PADRE E MADRE ) e la storia volge alla SCRISTIANITA’ e al MERCATO DELLE PULCI, altre due liriche, mentre nell’ARCHEOLOGIA DEI RIFIUTI e in GROVIGLIO ANTICO si ripropongono echi lontani di vita che spengono in orizzonti senza più cielo.
    Il mito remoto ( vedi la lirica DOPO IL RATTO D’EUROPA), colmo di sangue e di pena, è alla radice di un secolo “lungo più di un incubo infinito” ( si veda la lirica XX° SECOLO) e LA GUERRA è generatrice di morti senza una vera ragione (“Per chi?….Per cosa?), mentre nella lirica COZZARE DI STELLE, in un universo sconosciuto forse proprio perché esplorato e scoperto, un PIONEER 10 va “ad incontrare non si sa” chi, e l’uomo tragicamente si illude di aver conseguito l’eternità con la clonazione. Una riflessione esistenziale unitaria e, come si vede, accorata e disincantata, si fa per questa via canto di dolente umanità, e le immagini richiamate non lusingano o brillano ma dicono e suggeriscono verità a lungo ignorate.
    Queste poesie, invero, sono colme di un pensiero che non solo discetta razionalmente ma medita e soffre, riflette e comprende, intende ed ama.
    Il canto che nasce è sintesi di vita ed in questa sintesi è il suo messaggio lirico più vero e più significativo per l’uomo di oggi dimidiato tra un amaro scoramento di essere ed un inconfessato sogno di amore e di bontà sotto cieli infiniti. [Nativo]

    Giuseppe d’Errico

  • Cultura,  Poesia

    Le poesie di Angelo Siciliano. Al risveglio

    Il poeta – scrittore Angelo Siciliano

    [Ed. 21/01/2005]
    [Nativo]

    Redazione

     

    AL RISVEGLIO*
    S’è fatta notte fonda
    al paese
    dove a ogni casa
    il frigo sta alla cantina
    la tivù al focolare
    non c’è fuoco di quercia
    che sfavilli né cunti.
    Da tempo una cultura
    maligna
    s’è troppo radicata
    come una donna presa
    con forza tante volte
    ci si è assuefatti alle violenze.
    Al risveglio del cuore
    spera un vegliardo tra gli ulivi
    con le nacchere tra le dita:
    chissà che non torni
    ai giovani
    la voglia a favellare.

    *Alla memoria di Rocco Scotellaro e
    Manlio Rossi Doria.

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