Cultura orale
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Il Dialetto di Montecalvo Irpino
Angelo Siciliano
[Ed. 24/11/2004] Montecalvo Irpino è situato nell’Alta Irpinia nord-orientale e la sua parlata presenta affinità con i dialetti dell’Abruzzo, del Molise, del Sannio, della Daunia, della Lucania e della Calabria settentrionale, aventi tutti come sostrato l’antica lingua osca, e anche della Sicilia.
Per scrivere i miei testi vernacolari nella parlata montecalvese, appartenente alla vasta famiglia del dialetto irpino, dopo attenta valutazione ho adottato l’ortografia fonetica.
Questa parlata presenta la stessa varietà vocalica dei dialetti delle aree geografiche suindicate. La e tende ad essere muta, come quella francese, e nel finale delle parole s’avvicina al suono della i, come in fémmini (donne). La e aperta, con accento grave, si è conservata, come ad es. nelle parole bèlla, facènni, èriva, èscu, mèle, fèddra (bella, faccende, erba, esco, miele, fetta).
La vocale o può avere due suoni distinti: aperto, ad es. in ‘ncòppa (sopra), oppure chiuso come in cócche (qualche). In finale di parola assume un suono indistinto tra la o e la u, es. dòppu (dopo).
La j è semivocale o semiconsonante ed è associata a delle vocali, come ad esempio nelle seguenti parole: éja, uócchji, vìja, mìju, pilìji, manéja, ruzzéja (è, occhi, via, mio, scuse, maneggia, ruzza).
Presente nel dialetto montecalvese è lo iotacismo, vale a dire quel fenomeno linguistico per cui la j prende il posto di una consonante: quello della b, come nella parole janchijàni, jancu, jastéma, jastimàni (biancheggiare e bianco dal germ. blank, bestemmia e bestemmiare dal lat. blasphemare); quello della d come nelle parole juórnu, jurnàta, jurnatiéru (giorno, giornata e bracciante dal lat.diurnum); quello della f, come nella parole jatàni, jàura, jèttula, juccàni, juccanìzzu, jucchiliàni (fiatare dal lat. flatare, vapore caldo dal lat. flagrum, verga spaccata di salice per intrecciare cesti o legare scope dal lat. flecta, fioccare, forte nevicata e nevicare lievemente dal lat. floccu); quello della g, come nelle parole jatta, jattarùlu, jéffula, jilàma, jilàni (gatta, gattaiola o erba gattaiola dal lat. cattu, pezzetto dal fr. gifle, gelata e gelare dal lat. gelare); quello della h come nelle parole jalìzzu, jàsima (piccola superficie o respiro lieve, sbadiglio, dal lat. halare).
È un finto iotacismo quello relativamente alle parole: jiéncu, jini, jittàni, jittàtu, jónce, jónta, juócu, jussu, justu (vitello, andare, gettare, debosciato, giunco, giunta, gioco, diritto, giusto) che derivando dal latino (juvencus, ire, iectare, iuncu, iungere, iocu, ius, iustu) iniziano già tutte con la lettera j o i; jippóne e jòtta (indumento malridotto dal fr. jupon o dall’ar. ğubba, sottana, e acqua dopo la cottura della pasta dallo sp. jota) che già iniziano per j. -
Il contadino che cantò il 2 giugno
[Ed.00/00/0000] Scarsissime in Campania si contano le testimonianze di autentiche espressioni di canto politico, anche se va attestata, al contrario, una sommersa produzione di tal genere, specialmente in Irpinia. Il canto politico, dal punto di vista musicale, raramente può riferirsi a moduli etnici, e generalmente si poggia su melodie popolaresche di larga diffusione, più atte ad accogliere un testo destinato ad una chiara comprensione verbale. Questo è il motivo per cui, assolta la sua funzione storica, un canto politico esce poi dall’uso, dai repertori che connotano la funzione metastorica del canto espresso in un rituale collettivo. Il canto politico, quindi, rimane vivo solo nella memoria di chi visse quel momento, di cui quel canto fu voce reale di avvenimenti che coinvolsero il contesto sociale. Ciò spiega anche la esigua documentazione di canti popolari politici, che, necessariamente, vivendo di trasmissione orale funzionale alla collettività, quando hanno esaurito la loro funzione storica, si dissolvono nei recessi della memoria collettiva.
Né, come abbiamo detto, essi sono relativi a strutture musicali autonome o specifiche, ma, risultando come prodotto di un processo parodistico, hanno durata effimera cui segue l’inesorabile annegamento del testo nel trascorrere di una realtà dinamica e non statica della cultura orale. In tale consapevolezza, ho più volte stimolato la memoria di informatori anziani circa avvenimenti storici stigmatizzati da un peculiare componimento orale, e più volte la mia richiesta ha sortito esiti positivi. Assecondando un’insopprimibile vocazione ai percorsi esplorativi, su segnalazione dell’amico Aniello Russo, tempo fa mi recai a Montecalvo Irpino allo scopo di incontrarmi con Felice Cristino, contadino ottantaseienne, la cui memoria rappresenta una biblioteca orale di notevole interesse per ciò che riguarda la storia altra, quella non ufficiale, dell’area meridionale in generale edell’Irpinia in particolare. In essa è testimoniata una diffusa resistenza al fascismo, e, successivamente, al potere clerico-fascista del dopoguerra. Felice Cristino, o meglio zi’ Felice – come tutti lo chiamano a Montecalvo – mi aprì gli scrigni del suo ricordare e mi comunicò la sua attiva partecipazione al dissenso contadino contro le ingiustizie baronali, i privilegi politici, evocando luminosamente il tragico contesto dell’ultimo dopoguerra. Rappresentante esecutivo di un tradizionale stile di canto irpino, egli si dichiarava autore di un componimento politico da lui creato, a scopo propagandistico, in occasione della campagna elettorale indetta per il referendum del 2 giugno 1946. L’eccezionale documento ha tutte le caratteristiche della più autentica popolarità: esso si plasma sulle strutture antifonali degli antichi canti di lavoro, risulta composto secondo le tecniche orali, presenta un testo estraneo a formule di retorica politica, esprime un «noi» e non l’ «io» della sentenziosità borghese, e si carica di quell’ironia irridente che si sprigiona dall’autenticità realistica delle culture orali. In tal senso, nello snodarsi strofico del canto, ricorrono alcune figure della realtà montecalvese di quel tempo, disegnate a vividi tratti dalla fertile vigorosità sfottitoria dell’antico contadino, al quale i suoi vecchi amici riconoscono un indiscusso ruolo di leader autorevole. [Nativo] [Foto di Angelo Siciliano]
Roberto De Simone – Il Mattino
Compagni, il due giugno – Felice Cristino [Demo]
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Un patrimonio ritrovato nel dialetto Irpino dell’Ottocento
[Ed. 04/12/2003] Da molti anni sto lavorando al recupero del patrimonio di ciò che fu la civiltà contadina in Irpinia. La ricerca è incentrata sul mio paese natale, Montecalvo Irpino (AV), piccolo comune dell’Alta Irpinia nord-orientale, area geografica che è stata sempre a stretto contatto con le genti d’Abruzzo, del Molise, del Sannio e della Daunia.
Il suo territorio, già frequentato e abitato nel neolitico, è attraversato dal tratturo “La Via della Lana”, che consentiva ai pastori abruzzesi la transumanza delle greggi da Pescasseroli a Candela, in provincia di Foggia. Come molti paesi del Sud, Montecalvo è situato ad un crocevia, dove tanti dominatori sono passati con le loro culture, lasciando segni indelebili che si riscontrano nella lingua, negli usi e costumi, nella storia, nelle credenze magiche e religiose, nel carattere delle persone. È un paese che, come altri nei secoli passati, ha accolto genti di altre regioni meridionali, dopo che la peste o il colera ne avevano falcidiato gli abitanti. Infatti, su invito dei regnanti, molte famiglie della Sicilia e della Puglia erano sollecitate a spostarsi, con migrazioni interne, per cogliere nuove opportunità e ridare nel contempo linfa vitale a tutte quelle contrade del regno che si erano spopolate.
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Canti e cunti di tradizione orale nel nuovo CD di Alberto Tedesco
Lunedì 31 Ottobre, alle ore 21:30, presso “Lu Varrile”, a Montecalvo Irpino, viene presentato il CD “Canti e Cunti Montecalvesi Vol.1”, di Alberto Tedesco: un viaggio nei suoni e nelle leggende della civiltà arcaica contadina Montecalvese. L’autore tiene a precisare che le copie fisiche sono limitate; pertanto la diffusione avverrà attraverso le piattaforme digitali.
Ho avuto modo di apprezzare Alberto Tedesco in uno dei suoi concerti con i Fujenti, gruppo il cui stile fonde il jazz con la musica popolare, anche se, a dire il vero, in Alberto l’attaccamento, la passione e il sentimento per la musica di tradizione orale risalgono già a qualche anno fa. Durante l’esibizione del gruppo in questione, mi ha piacevolmente sorpreso la particolare interpretazione del canto “Inno alle Grazie”, che richiama alla mente “Madonna de la grazia”, brano della NCCP, portato alla ribalta già negli anni Settanta del secolo scorso, nonché l’esecuzione di alcuni vocalizzi a supporto del sassofonista Ettore Patrevita, secondo una pratica in uso nella musica jazz. Il termine tecnico per definizione è “scat”, e maestri di questo genere sono stati, tra i tanti, Dizzy Gillespie e il compianto Lucio Dalla dei primordi, mentre tra i contemporanei è da annoverare il foggiano Gege Telesforo.