Territorio
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Gli abitanti del Trappeto
Angelo Siciliano
[Edito 03/09/2014] Il Trappeto perse la sua identità etnica, non tanto per l’emigrazione di molti suoi giovani, ma a causa del terremoto del 1962, che comportò la ricostruzione delle case delle famiglie che vi abitavano, in nuove e lontane aree edificabili indicate dall’amministrazione comunale. Così, quell’abbandono, anche se case, grotte e cantine rimasero agibili per lungo tempo, ha determinato negli anni l’inizio di crolli sparsi di edifici, che fa paventare in tempi non lunghi la sua sparizione come agglomerato urbano. Forse si salveranno i tracciati delle strade e resteranno qui e là cumuli di macerie, “li mmurrécini”, e le grotte, enormi cavità orbitali vuote invase da alberi e sterpaglie. Guardando gli altri paesi, non si capisce se a Montecalvo si sarebbero potute fare scelte diverse. Ariano Irpino, dopo i terremoti, ha sempre dato la priorità al recupero degli edifici storici e poi anche alle case della parte vecchia della città.
A Montecalvo, il centro storico è pressoché disabitato. Tanti edifici storici si preferì abbatterli in fretta e furia, e ricostruirli in modo anonimo anziché ripararli. Ritardi nei progetti, inghippi burocratici e nei finanziamenti hanno reso l’intero paese una realtà diversa dal passato, senza un’identità architettonica e urbanistica.
Il Trappeto, da est a ovest, compreso tra il Chiassetto Caccese e Via Dietro Carmine, era abitato nei secoli passati e tanti vi ebbero i natali. Lo attestano i registri antichi dell’archivio dell’anagrafe comunale. Accolse alcune famiglie di zingari, il cui cognome era Schiavone, e col tempo esse furono assimilate e i loro membri diventarono ciucai e contadini.
Dopo i crolli provocati dai terremoti veniva ricostruito, ma l’evento più drammatico fu la peste del 1656, che a Montecalvo fece oltre 2000 vittime su una popolazione di circa 3600 abitanti. Anche il Trappeto ne uscì falcidiato, ma accolse i pochi abitanti sopravvissuti del feudo di Corsano.
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Il Trekking Pompiliano
[Edito 09/07/2013] Lunedì, 15 luglio 2013, anniversario della divisione al cielo di San Pompilio Maria Pirrotti, si riproporrà un evento che negli ultimi anni ha visto la partecipazione di molti pellegrini e amanti del Santo: “Il Trekking Pompiliano” curato, come sempre, dall’infaticabile Gaetano Caccese. La partenza sarà effettuata da piazza S.Pompilio e da qui si avventureranno nell’antico percorso che il giovane Pirrotti compiva nel raggiungere la “Chiesa dell’Abbondanza” a lui tanto cara. Si attraverserà via lungara fossi, l’occhiu di lu diavulu, contrada conca, la zona della chiaria un vecchio percorso che anticamente si faceva a piedi per raggiungere il paese. Attraversando i calanchi della chiaria-conca ci si immerge in luoghi suggestivi e particolari, un paesaggio unico e suggestivo con molte particolarità naturali e alberi secolari. Durante il cammino oltre alla possibilità di incontrare aspetti faunistici interessanti si raccoglie la sensazione di un’immersione nella giungla , in quanto gli alberi maestosi e secolari che infoltiscono i luoghi con delle sensazioni uniche agli occhi del pellegrino, trasformando la fatica del cammino in un crescente arricchimento della conoscenza di luoghi splendidi che mai nessuno poteva pensare di aver a portata di mano, ma che spesso si pensa di girare il mondo per vedere.
La zona essendo quasi tutta selvaggia rappresenta una riserva naturale d’uccelli e animali di vario tipo , tassi ,volpi, cinghiali ecc . inoltre si nota lo svolazzare continuo di farfalle di ogni genere quasi come se ti trovassi in una riserva naturale, le pupille degli occhi battono come una macchinetta fotografica nel cercare di immagazzinare le immagini quasi in esclusiva del panorama e del paesaggio percorso. Si consiglia scarponi pantaloni, camicia , un bastone e una macchina fotografica.lungo il percorso si puo’ ammirare e scoprire qualcosa che mai nessuno spazio di ricerca , la stratificazione fossile di era glaciale compattata nei diversi livelli di sabbia e gliaia marina e delle cose piu’ interessanti del nostro è quella zona fino alla chiaria abbondanza di presenze e di possibilta’ visive. . A mio parere, Montecalvo tra straordinarie bellezze riserva dei percorsi di trekking unici, tutti da esplorare e opportunità di sviluppo turistico tutte da sfruttare, e grazie all’impegno dell’amico Gaetano Caccese che tutto si sta evidenziando grazie alla sua perseveranza. e grazie a tutti coloro che collaborano con lui. E dopo tanto camminare il ritorno in piazza S.Pompilio. [Nativo]
Nicola Serafino
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Montecalvo 1954: la vana richiesta di passare al Sannio
Fiorenzo Iannino
[Edito 08/09/2021] Il 25 agosto 1945 il sindaco Pietro Cristino (nominato dal CLN) chiese il passaggio di Montecalvo Irpino alla provincia di Benevento. Non era una novità: un’analoga istanza era stata già inutilmente formulata nel 1923. L’allora commissario prefettizio dell’amministrazione provinciale di Avellino, il navigato ex parlamentare Francesco Amatucci, oppose il suo netto rifiuto a questa e alle analoghe richieste di Sant’Arcangelo Trimonte e Buonalbergo: “mi permetto di far presente che in analoghe condizioni si trova il comune di Pannarano che, pur appartenendo alla provincia di Benevento, è completamente, a sua volta, intercluso nel territorio della provincia di Avellino e la popolazione, a quanto sembra desidererebbe il passaggio del comune alla provincia di Avellino [… ]Si potrebbe, in tal modo, abbinare il provvedimento, con l’eliminazione delle due anormalità topografiche e con una certa compensazione territoriale e finanziaria fra le due province interessate, ciascuna delle quali perderebbe un comune per riacquistarne un altro“. Avvertendo il potenziale rischio di frantumazione del territorio provinciale (erano in fermento anche vari comuni limitrofi alle aree salernitana e nolana) un anonimo funzionario della prefettura annotò a margine della delibera di Montecalvo: “a poco a poco la provincia verrà soppressa!”
I “voti” del 1954
Pietro Cristino (trionfalmente eletto nella primavera del ’46 con la lista socialcomunista della “Spiga”) tornò alla carica il sedici febbraio 1949. Il democristiano Carlo Caccese, però, convinse l’assemblea a rinviare l’argomento. La questione fu poi riproposta il 25 aprile 1954 dal nuovo sindaco Francescantonio Panzone. Nei “voti” inviati al ministero dell’interno e all’amministrazione provinciale si indicarono le quotidiane difficoltà vissute dai concittadini nel recarsi ad Avellino per compiere le più varie incombenze burocratiche e assistenziali mentre “il costo del biglietto ferroviario è quasi il triplo di quello per Benevento” e “moltissimi giovani si recano giornalmente nel capoluogo sannita”. Di più, sostenendo che “l’economia del Corsanese gravita verso Apice e Benevento”, il consiglio dichiarò di farsi interprete del “voto unanime di tutte le categorie degli artigiani e dei commercianti”. La richiesta non fu votata dalla minoranza. Questa volta Caccese fece notare che in realtà la quasi totalità dei pubblici uffici quotidianamente necessari alla comunità (tribunale, pretura, imposte dirette, registro ecc.) si trovavano nella vicina e ben collegata città di Ariano. La maggioranza modificò allora il testo dei “voti”: il passaggio al Sannio doveva avvenire salvaguardando l’integrale aggregazione agli uffici dislocati sul tricolle, almeno fino alla “creazione da parte di Benevento in Montecalvo di sezioni distaccate dei predetti uffici”. -
La Valle del Miscano si spopola
Alfonso Caccese
[Edito 14 luglio 2013] Non sono bastati i terremoti del Novecento (1930, 1962, 1980), le macerie del dopo guerra, l’abbandono in massa delle terre da coltivare, la scomparsa dell’artigianato locale, il difficile e lento recupero di un livello minimo di vita dignitosa, una minaccia vecchia (ma sotto nuove forme) si presenta oggi in tutta la sua pericolosità e imponenza per infliggere un altro duro colpo al tessuto sociale della nostra comunità: l’emigrazione intellettuale. Essa rappresenta una sciagura mortale che potrebbe portare col tempo alla scomparsa delle piccole realtà locali, come quelle nostre della Valle del Miscano, che sono costrette a rinunciare alle loro personalità migliori, alle intelligenze più pronte e vivaci e a privarsi dei propri figli più capaci e brillanti, quindi delle loro risorse più preziose.
Naturalmente essa non rappresenta una novità: il nostro territorio è luogo storico di emigrazione. Ma le cause sono da imputare alla pochezza, all’ipocrisia e al cinismo delle classi dirigenti locali (e nazionali)? Gli anni passati si sono caratterizzati per Classi dirigenti che non hanno saputo mettere in campo progetti di sviluppo, innovazione e politiche industriali, tali da poter creare spazi di inserimento delle nuove professionalità, nate e formatosi sul territorio: giovani ragazzi e ragazze sono costretti a lasciare il proprio paese di origine e migrare verso aree più modernizzate alla ricerca di uno sfogo al legittimo sogno di affermazione in campi per i quali hanno speso un terzo della propria vita curvi sui libri con la speranza di uscire da uno squallore economico-sociale imperante nelle in zone afflitte da una atavica depressione consolidata nel tempo. Se si guardano le cifre degli abitanti dei nostri paesi dal 1950 ad oggi, si vede quasi dovunque un dimezzamento, o anche numeri ridotti di un terzo. Le cifre, purtroppo, parlano da sole: i nostri cari paesini della Valle si svuotano e perdono terreno nei confronti di altre realtà, pur sempre piccole, ma che ben hanno sfruttato, invece, gli anni di crescita del territorio, di modernizzazione, di spesa pubblica (soprattutto fondi europei). Il nostro territorio sta perdendo, ancora una volta, l’occasione di cercare un riscatto ed accorciare il divario tra una parte del Paese (il Nord) in costante crescita, confermando così un principio base, spesso dimenticato dagli stessi protagonisti dell’esodo: l’emigrazione altro non è, alla fine, che una forma di espulsione di un ceto sociale (povero) da un territorio, per il consolidamento degli interessi dei ceti che rimangono. Vanno via, come in ogni emigrazione che si rispetti, innanzitutto i “poveri”, magari “moderni” cioè laureati, ma “poveri”. Occorre che le classi dirigenti prendano coscienza della loro inettitudine per spronarle alla ricerca e attuazione di specifici progetti per poter invertire la rotta, ma anche invitare le nuove generazioni a resistere, a non abbandonare il proprio territorio, ma a valorizzarlo attraverso studi finalizzati alla creazione di progetti funzionali ad una crescita e ad uno sviluppo moderno e innovativo della nostra Valle. Il rischio, altrimenti, è che del nostro comprensorio rimanga solo un ricordo lontano del tempo ed un mucchio di case vuote. [Nativo]
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Verrilli torna alla guida della Proloco
Redazione
[Edito 07/07/2010] Montecalvo Irpino AV – Sergio Verrilli è di nuovo alla guida della Pro Loco. Verrilli ha ritirato le dimissioni dopo aver incontrato il sindaco ,Carlo Pizzillo, e il consiglio di amministrazione dell’associazione. La Pro Loco è una delle associazioni più attive del territorio, in quanto organizza parte del palinsesto estivo, fra cui alcune importanti manifestazioni, come la sagra dei Cicatielli e il palio delle Contrade, che si svolge da alcuni anni.
Verrilli ha spiegato i motivi per cui ha deciso di riprendere le redini della Pro Loco: «Non ho voluto mettere a rischio il programma estivo – ha detto -. Invito la cittadinanza a partecipare alla vita associativa. Le porte dell’associazione sono aperte a tutti. Perciò, è necessario mettere da parte le divisioni politiche che non favoriscono la crescita del nostro paese», conclude il presidente. [Nativo] -
Il MISCANO e la sua VALLE
Mario Sorrentino
[Edito 00/00/0000]I fiumi ci affascinano non solo perché possiamo immaginare con qualche fondamento che hanno cominciato a scorrere in un particolare luogo, si può dire, da sempre. Un sempre non infinito ma che può essere esteso nel passato sino a centinaia di migliaia di anni fa, o anche a milioni di anni; un sempre, inoltre, che ce li presenta diversi a ogni istante (Eraclito diceva che non ci possiamo tuffare due volte di seguito nello stesso fiume). Ma ci incantano i fiumi anche per altre ragioni, soprattutto per una in particolare: il mistero del significato dei loro nomi.
I nomi dei fiumi sono fra quelli più antichi di una lingua e quasi sempre risalgono a lingue anteriori parlate nel luogo da altre etnie che si sono succedute nel territorio nel corso di periodi a volte più che millenari. E nonostante che la creazione del nome del fiume (il suo “battesimo”) e la sua trasmissione di generazione in generazione siano avvenute per lunghi periodi presso popoli che non conoscevano ancora la scrittura (e perciò è stato registrato per iscritto soltanto in un tempo storico relativamente recente), quel nome è rimasto pressoché inalterato nel suono e viene ancora usato, e sarà usato chissà ancora per quanto tempo, come nome senza preoccuparsi del suo significato originale. Serve ora soltanto per distinguerlo da altri fiumi come una tabella stradale.
In uno scritto sulla contrada Malvizza, nel territorio di Montecalvo Irpino, abbiamo proposto, e riportato anche nell’approfondimento storico della scheda “Bolle della Malvizza” di questo museo, tra l’altro, anche una nostra ipotesi sulla etimologia del nome del Miscano.
La nostra ipotesi, per forza di cose soltanto probabile, proponeva per il nome Miscano due significati compresenti in esso in forza di una possibile loro unione semantica avvenuta nel corso del tempo (come avviene nel noto fenomeno linguistico dell’etimologia popolare). Risalivamo sia al radicale indoeuropeo *MEZG-, probabilmente collegabile al latino “mergere”, e all’italiano “immergere” (impossibile trovare qualcosa di corrispondente nei pochi termini noti della lingua osca parlata in passato nel nostro territorio); e sia all’altro radicale indoeuropeo *MEIG-, collegabile al latino “miscere” e all’italiano “mischiare” (omologo al verbo – ‘mmishkà’ne dei dialetti locali). Ritenevamo di conseguenza che l’ipotesi da noi ricostruita si rafforzasse per il fatto che il fiume e il suo bacino venivano, primo, attraversati dal tratturo più importante della transumanza tra l’Abruzzo e la Puglia, superando guadi in cui le pecore venivano “immerse”, sia per oltrepassare il fiume, come anche per lavare la loro lana, nel percorso di ritorno in montagna, in primavera; e, secondo, che il fiume finiva con il confluire, quindi “mischiarsi”, nell’Ufita e insieme a questo immettersi poi nel Calore, l’affluente più importante del Volturno. -
MONTECALVO. IL CENTRO STORICO SULLA PUBBLICAZIONE “CASTELLI D’ IRPINIA”
Gianluca Cardinale
[Ed. 21/06/2012] Montecalvo Irpino AV) – Montecalvo, terra ricca di storia, cultura e tradizioni, sarà inserita sulla prossima edizione di “Castelli d’Irpinia”, un percorso fotografico curato da Giuseppe Ottaiano attraverso i manieri della Provincia di Avellino. In questi giorni il curatore del progetto è stato a Montecalvo, dove in nostra compagnia, dell’imprenditore locale Nicola Serafino e successivamente anche di Francesco Cardinale ha avuto modo di conoscere una parte del nostro patrimonio artistico, architettonico e culturale. Una bella panoramica dalla pineta, una visita ai murales inerenti la storia del paese e poi dritti nel centro storico. Il Castello, il Santuario di San Pompilio, il Museo Pompiliano, i vicoli, i portali, uno scorcio della Montecalvo sotterranea sono solo una piccola parte dello spettacolo che abbiamo potuto ammirare e far ammirare al nostro ospite, grazie anche ad una splendida giornata estiva. Al termine della lunga passeggiata il Sig.Ottaiano è rimasto molto soddisfatto del materiale raccolto ed affascinato dalla bellezza del nostro territorio che come ci ha poi confidato, non immaginava così ricco di bellezze paesaggistiche ed architettoniche. Queste poche righe, forse non fanno comprendere la bellezza di ciò che abbiamo a Montecalvo. Il nostro invito è, quindi, di fare una bella passeggiata nella parte alta del paese e non solo, per ammirare il nostro meraviglioso museo a cielo aperto. [Nativo]
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LA STAZIONE DELLE PECORE DI TRE FONTANE
Mario Sorrentino
In altre schede di questo sito parliamo della transumanza e dei tratturi (v. Le Bolle della Malvizza con la scheda storica e Monte Chiodo di Buonalbergo). Però pochi punti degli antichi tracciati danno come fa la stazione del tratturo di Tre Fontane l’impressione vividissima che essa sia stata appena occupata e svuotata nel perenne alternarsi della discesa delle greggi dagli Abruzzi e la loro risalita dalle Puglie lungo il Regio Tratturo.
Sorge questa stazione tra la valle del torrente Cervaro e quella del torrente Miscano, nelle acque del quale venivano lavate le pecore prima della tosatura all’altezza del Ponte Bagnaturo, così chiamato proprio per questo uso.
Tre Fontane è precisamente una sezione tagliata nella Via Traiana, che i romani costruirono del resto anche su uno dei tratturelli preesistenti e diramantisi dal ramo principale e preistorico di quello che sarà chiamato Regio Tratturo Pescasseroli-Candela, quando venne istituita la Dogana di Foggia con un decreto di Alfonso d’Aragona, nel 1447. Abbandonata la via romana alla decadenza, i pastori si ripresero i tratturi, fra i quali questo che passava da Tre Fontane.
Ancora abitata oggi, la stazione si trasformò per ultimo in masseria, ma ha preservato tra le altre antiche strutture due grandi e lunghi abbeveratoi alimentati dalle sorgenti che, c’è da credere, sempre li hanno riempiti e li riempiono di fresca e abbondante acqua. Alla stazione delle pecore si entrava e si usciva da due ampie porte ad arco a tutto sesto che si fronteggiavano e si fronteggiano nel senso ovest/est. Lungo il lato opposto al muro di cinta in grossi blocchi di pietra, che corre in questo stesso senso, ci sono ancora gli edifici antichi anch’essi in pietra e ancora quasi integri, i quali sono prolungati dalle costruzione recenti della masseria.
Se si sta in piedi al centro della corte principale, con i piedi immersi nell’erba folta, e si chiudono gli occhi, facilmente l’immaginazione suggerisce i belati e i forti afrori degli animali, le urla rauche dei pastori e l’abbaiare dei grossi cani abruzzesi.
Andiamo a visitare il cortile più piccolo verso nord, passando sotto un portico ad arco che sorregge ancora l’abitazione dei “signori”, come li chiama il figlio della proprietaria della masseria. Soggiornavano lassù una volta i padroni delle greggi che le seguivano a cavallo, e dopo, in tempi più recenti, i proprietari della masseria. In questa corte piccola c’è ancora la stalla riservata alle bestie “partorienti” e ai nuovi nati destinati a rimanere indietro rispetto al grosso che ripartiva. La stalla ha dei compartimenti delimitati da muretti di pietra per la “comodità” delle singole madri e dei loro piccoli.
Prima di partire beviamo ancora dai getti degli abbeveratoi l’acqua gelata; e ci sembra di compiere un rito che se ancora ristora non ha per noi l’importanza vitale, quasi sacra, che aveva per quei pastori.Francesco Cardinale ed io (Mario Sorrentino) ringraziamo Gaetano Caccese che ci ha fatto scoprire Tre Fontane guidandoci sin lì.
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PERCHÉ STUDIARE L’IRPINIA?
Stephanie Longo
[Ed. 13/08/2003] Ecco la domanda che mi si faceva quasi ogni giorno per gli ultimi due anni. All’inizio di questa ricerca non sapevo veramente cosa rispondere e, di solito, la mia risposta era “Perché voglio studiarla”. Poi le domande hanno cominciato a richiedere risposte più dettagliate…. “Sig.na Longo, con tutti gli altri campi dell’italianistica e tutte le altre zone dell’Italia più meritevoli di uno studio, perché scegliere di fare un’analisi sulla letteratura proveniente dall’Irpinia?” Ovviamente dovevo lottare per il tema che ho scelto di analizzare molti mesi prima della vera presentazione della mia ricerca.
Riflettendo un po’, posso capire perché la mia scelta dell’Irpinia come oggetto della mia ricerca non era ben accettata. Il Mezzogiorno d’Italia non è una zona spesso studiata qui in America e, perciò, non si conoscono bene i fatti. Nell’immaginazione collettiva americana, il Meridione di oggi è ancora come quello sottosviluppato e contadinesco trovato in “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi anche se quel libro è stato scritto più di 50 anni fa! Un’italianista definita meridionalista come me non studia il cosiddetto “problema meridionale” o altri “problemi” della zona; lei studia, invece, la storia, la cultura o la letteratura della zona—insomma studia tutto quello che rende la zona speciale e meritevole di uno studio dettagliato. Ed il lavoro più importante di una meridionalista che lavora qui in America è di far sparire i vecchi stereotipi del Mezzogiorno che la mostrano come la zona sottosviluppata e contadinesca del libro di Levi. E questo è quello che ho cercato di fare ne “La modernizzazione dell’Irpinia vista attraverso la letteratura italiana pubblicata dopo il 1980.” -
A proposito del Trappeto
Antonio Stiscia
[Ed. 00/08/2009] Il complesso architettonico e urbanistico è da considerare un unicum,paragonabile ai più famosi Sassi di Matera solo per la disposizione a terrazze e alla conformazione,nel mentre son ben diverse le caratteristiche legate ai servizi comuni e alla convivenza delle genti,molto simile ad una società comunarda complessa,regolata da rigide regole di convivenza e di interdipendenza. Trappeto è termine di derivazione greca e si rapporta alla lavorazione e trasformazione delle olive,termine ancor oggi usato correntemente dalla popolazione,insieme a Frantoio. La presenza di numerosi frantoi oleari,del tipo a macina in pietra ,tirata da asini,delineò la toponomastica di una non vasta area,che col tempo ebbe ad aver una incidenza abitativa enorme e la nascita di un vero e proprio formicaio umano. Se si pensa che in poco più 40.000 metri quadri,vivevano e convivevano almeno 2000 persone,con gli animali e le masserizie relative,ci si rende conto dell’indice abitativo elevatissimo. La prima domanda è il perché la popolazione scelse di vivere in un formicaio,anziché espandersi in altre zone o ancor meglio abitare in campagna. La risposta appare naturale in riferimento alla sicurezza e alla necessità di vivere il più vicino possibile a chi poteva difenderla (castello e palazzi )ma anche dalla necessità di trarre da questa prossimità il necessario per vivere,fornendo le braccia e la capacità trasformative(artigianato). Il nucleo autentico Trappeto è quello ricompreso tra Via Sottocarmine e la Porta medioevale che Conduce a Chiassetto Caccese – zona Teatro.