I Giacobini Montecalvesi
e La Repubblica Napoletana del 1799
Antonio Stiscia
[Edito 00/10/2005] Francesco Scandone, nella sua monumentale opera “Cronache del Giacobinismo Irpino”, e in riferimento a Montecalvo, ascrive al 1791 la prima notizia ufficiale dell’esistenza del Giacobinismo a Montecalvo, tra i primissimi e rari esempi nel Regno ed a pochi mesi dalla Rivoluzione Francese del 1789:
1791 – D. Gaetano Rendesi, D. Felice Caccese e Vincenzo Bocchicchio, costituiscono un Club Giacobino.
A metà del ‘700, nel Reame di Napoli, influenzato dalla cultura inglese, sorretta e incrementata dal ministro Acton, arriva la Massoneria, un modo concreto e moderno di concepire la fede cristiana, fondata sulla fede vissuta nella fratellanza e nelle opere di carità. Divenne di moda farne parte, per quella ritualità e gerarchia quasi ecclesiale, che consentiva ai laici di perseguire gli ideali cristiani, scevri dal controllo della Chiesa Ufficiale e senza dover far voti di ubbidienza. (cfr. Congregazioni)
L’adesione di numerosi nobili e ricchi borghesi (Principe Carafa, Il Marchese di Sangro ecc.) e di molti preti, spinse il Papa a scomunicare la “Setta”, avendo compreso il pericoloso attivismo di un movimento che poteva anziché sorreggere, porsi in concorrenza con gli organismi ufficiali della Chiesa di Roma.
Tra i primi Sovrani ad assecondare l’anatema del Papa, fu il re di Napoli (Carlo di Borbone), che provvide a perseguitare e di poi a chiudere le Associazioni dei “Liberi Muratori”. La persecuzione, si sa, genera i martiri, e quello che doveva essere uno sfogo eccentrico ed anche ridicolo, di qualche nobile annoiato e di qualche borghese arricchito, si rivestì di connotati rivoluzionari.
La Massoneria si trasformò (come sempre accade nel Meridione) in Accademia, in Società Patriottica, in Carboneria (“cambiar tutto per non cambiar niente” – cfr.Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), e quel che doveva essere un club di snob napoletani, scimmiottanti la nobiltà inglese, assunse le caratteristiche di un Club di pericolosi attentatori all’ordine costituito.
Il 1793, regnante Ferdinando di Borbone, rappresenta bene questo salto di qualità: la neonata Società Patriottica, trova in Carlo Laubergh, scolopio come San Pompilio Maria Pirrotti, il propugnatore della trasformazione della società, innestata sul tronco della Massoneria, in Club Giacobino. I club, nati a Napoli, proliferarono, ed è proprio a Montecalvo che se ne forma uno dei primi e più importanti. Un certo Giuseppe Boccassi, in data 15 Giugno 1793, denunzia l’esistenza di una setta in Montecalvo, dedita alla sedizione e al dispotismo. Il 9 Novembre 1793, la Giunta di Stato dispone l’incarcerazione degli affiliati, tra cui:
Gaetano Rendesi, ufficiale di dogana, studente in Giurisprudenza;
Felice Caccese, guardiano di vigne;
Vincenzo Bocchicchio, commesso di dogana, agli ordini del Rendesi.
Dalla denuncia, che fa nascere la setta nel 1791, si conosce che i tre arrestati ricoprivano la carica rispettiva di Presidente, deputato e segretario e che, sentendosi nuovi Apostoli di un nuovo Vangelo, avevano preso i nomi di Apostolo Pietro, Apostolo Paolo e Barnaba. Vennero ascritti come volteriani di religione e roussoniani di politica.
Dagli incartamenti, che lo Scandone, cita e riporta, vengono fuori fatti e situazioni, evidentemente surreali, che però segneranno la vita di queste persone, anche perché la congiura del marzo 1794, costringerà il potere centrale a esercitare il pugno di ferro nei confronti di un movimento che stava crescendo e di cui non si conoscevano i contorni organizzativi e logistici. Ma, come spesso accade nella storia italica, si sa che solo il Bocchicchio fu processato, e condannato nel 1798, degli altri 2 non si ha notizia, forse perché deceduti in carcere o costretti all’esilio.
Il dato straordinario che si ricava dall’avvenimento è che l’attività del Club di Montecalvo risultò autonomo dalla congiura del 1794 e che scaturisse da fattori politici “…quella popolazione (di Montecalvo) scotesse ogni subordinazione, e si lamentasse delle contribuzioni ai pubblici pesi”.
Il malcontento per il peso fiscale, venne considerato pericoloso strumento di azione politica, fatto che desterà non poche preoccupazioni alle autorità. A Montecalvo, il movimento rivoluzionario era fondato non solo su questioni filosofiche e di governo, ma su situazioni concrete e su disagi veri della popolazione, che cominciò, seppur segretamente, a simpatizzare con i Giacobini.
Le autorità, al fine di evitare che alcune situazioni di favore potessero innescare la miccia della rivolta popolare, attuarono attenti controlli sulla fiscalità e sulla correttezza di tenuta del Catasto onciario. L’arresto di numerosi borghesi e di alcuni nobili di rango, suscitò un grosso scalpore nel Regno: i popolani, allorché compresero che i nobili ed i ricchi attentavano alla monarchia, in nome della libertà e dell’eguaglianza, si trovarono frustrati e sbandati, non sapendo più a chi credere, convinti che spettasse a loro invocare condizioni di vita migliore e non a chi già ne usufruiva. Per questi motivi la Rivoluzione borghesizzata, non affascinò il popolo, che nelle novità vedeva un sempre maggior carico di fatiche e tribolazioni. Il popolo restò realista, legato a quel Re che sebbene facesse ben poco per la loro condizione miserrima, restava unico baluardo ed unico riferimento politico, ad una classe borghese arrembante e spavalda e ad una nobiltà di paese decadente e nostalgica dei privilegi feudali.
Altri montecalvesi furono arrestati e processati, sebbene residenti e/o dimoranti in altri Comuni Irpini: Michele e Salvatore Bozzuti di Casalbore; Sebastiano Di Rubbo.
Ma è a Napoli [v. monografie “1798, La fine del sogno illuminista” e “1799, la Repubblica Napoletana e il primo soggiorno a Palermo di Ferdinando III”, N.d.R.] che accadono i fatti salienti delle vicende Giacobine, nella capitale del Regno tra i più importanti e ricchi d’Europa, dove gli Irpini e i Montecalvesi, ancora una volta, saranno in prima linea, tra i capi e gli organizzatori. Così scrive lo Scandone citando il Sansone:
“Si sa che, anche prima dell’entrata dei Francesi in Napoli, gli studenti di Medicina, il 15 Gennaio 1799, armatisi, avevano fatte delle ronde per la città, uscendo dall’Ospedale degli Incurabili.Tra essi, come studente, era il sacerdote Domenico Stiscia, di Montecalvo.Il giorno 22, formata una compagnia di più di 30 persone andarono nel Largo delle Pigne, per far fuoco contro il popolo…….;essi medicavano i feriti francesi, e davano morte ai feriti del popolo.Poi contribuirono a far cadere nelle mani dei nemici il Castel S.Elmo; alla fine, innalzato nel cortile dell’ospedale l’Albero della Libertà, vi danzarono intorno”.
Presente e partecipe fu il Direttore dell’Ospedale D. Ferdinando Pennetti, mentre tra i capi degli studenti, furono annoverati il Clerico Michele Lambarelli di Casalbore e Luigi Greco di Avellino.
I fatti furono poi riportati dalla storiografia ufficiale borbonica, tesa a dimostrare, ovviamente, la ignominia della rivoluzione e gli aspetti negativi della stessa. Ma è indubbio, come recita lo Scandone, che la partecipazione di massa della intellighenzia e della nobiltà irpina porterà “In conclusione, si può dire che la nobiltà feudale, pur sapendo a quali peripezie sarebbero andati incontro i loro privilegi, abbracciò, quasi in massa, il Partito Repubblicano”.
Montecalvo entra, seppur indirettamente, nel governo provvisorio, grazie alla fede dei suoi giovani e alla presenza dei suoi nobili (Raffaele Coscia, Duca di Paduli e signore di Montecalvo e di Grottaminarda, e di Tommaso Susanna, ministro della Guerra). A capo della Censura nazionale viene nominato Marcello Luparelli(a) di Ariano ma originario di Montecalvo.
La fine della Repubblica Partenopea è legata al mancato coinvolgimento del popolo ed è ancora lo Scandone, che con sagacia ne delinea i termini:
“Il popolo, nella sua gran maggioranza, odiava i Francesi per istinto, come stranieri ed invasori, più che come nemici del re e della religione.E poi, il favore che le loro teorie godevano presso i nobili, presso i signori feudali, e i galantuomini in generale, era da solo sufficiente a suscitare diffidenza e sospetto sulla specie di-Libertà ed Uguaglianza, ch’essi vantavansi di apportare”.
Il 14 giugno 1799 finisce la Repubblica Partenopea: il Cardinale Fabrizio Ruffo, a capo di un esercito di popolani, ma anche di briganti e malfattori, entra trionfante in Napoli e restaura la Monarchia Borbonica (restaurazione di breve durata, in quanto sarà di nuovo travolta da Napoleone nel 1806. Alla fine del periodo napoleonico, nel 1815, i Borbone verranno di nuovo reinsediati sul trono. Attueranno quindi una politica di diffidente autarchia, restando incapaci di promuovere la convivenza civile, divenendo essi stessi artefici della propria fine dinastica e della dissoluzione del Regno).
Ma che cosa è accaduto a Montecalvo in questi pochi mesi di Repubblica?
I numerosi fatti sono stati ben narrati e raccolti nel bellissimo libro di Vittorio Caruso “La repubblica partenopea del 1799…” che invito a leggere, per la capacità di sintesi storiografica e per la documentale ricerca storica, condizioni imprescindibili di una saggistica moderna. Non è mia intenzione “saccheggiare” il libro, citando i fatti ivi narrati, frutto di paziente ricerca, ma voglio stuzzicare il lettore e l’appassionato di storia, riferendo che nel suddetto libro vengono riportati gran parte degli atti giudiziari e degli avvenimenti della Montecalvo Repubblicana, con dovizia di nomi e famiglie ancor oggi presenti e prosperanti.
Il ritorno del Re e della Monarchia nel 1799 non fu indolore, anche perché i traditori erano stati proprio coloro (I nobili) che avrebbero dovuto avere maggior interesse a conservare lo status quo. La vendetta perciò si dimostrò più cruenta che mai, anche perché i popolani chiedevano vendetta, vogliosi di ripagare i soprusi di una classe di comando feudalizzata e bigotta.
Avvenne nel reame di Napoli, l’esatto contrario di quel che avvenne nella Rivoluzione Francese: qui da noi, il Popolo, per il tramite del re, perseguitò i ricchi borghesi e i nobili traditori. Molte furono le vite stroncate, spesso le migliori ed i migliori ingegni. Si sa che ogni grande ideale comporta grandi sacrifici e fu per questo che subito dopo la capitolazione repubblicana, centinaia di intellettuali, di veri nobili, di veri preti e di giovani liberali, vennero stroncati nell’esistenza ma non negli ideali, che anzi si rafforzarono e si cementarono nel tessuto della società civile.
I Montecalvesi non subirono particolari condanne, il paese seppe ritrovare la propria armonia, e con l’aiuto dei tanti realisti e sanfedisti e la disponibilità dei notai del tempo, si ebbero attestate testimonianze di leali sudditi, che mitigarono le responsabilità dei rivoluzionari. Fu smorzata sul nascere qualsiasi voglia di vendetta, che si consumò con alcune denunzie fatte, però, fuori comune, ma prontamente smentite da una saggia interazione tra la ricca Borghesia e la potente classe clericale, che contava papali collegamenti e intrecci familiari degni del miglior ducato rinascimentale. Non poteva perdere la vita chi si era limitato a piantare qualche albero della libertà nel Febbraio del 1799 (alberi prontamente estirpati col cambio di governo), né tantomeno chi si era macchiato di crimini ideologici, senza però far del male a nessuno, né attentare alla vita di alcuno. Potevano mai essere condannati i repubblicani Acquanetta e Lorenzi?
Un solo Montecalvese rischiò veramente la vita, quel giovane studente di medicina, nonché prete – Domenico Stiscia – che con i colleghi Pucci e Grossi, si era reso protagonista dell’avvenimento-scintilla della Repubblica Napoletana: la presa di Castel Sant’Elmo, l’impianto del primo albero della libertà e la distruzione dei ritratti dei sovrani, in nome della libertà ed uguaglianza tra gli uomini. Pucci e Grossi furono condannati a morte, il prete Domenico Stiscia, Egidio Damiani e altri, condannati all’esilio perpetuo, sotto pena di morte in caso di ritorno. Particolarità del provvedimento reale del 12 Febbraio 1800, è la descrizione precisa e particolareggiata di questo montecalvese mio antenato, di anni 38, figlio di Alessandro… che riuscì a salvar la pelle perché prete e forse per intercessione del Santo Padre su quel Cardinal Ruffo, arbitro dei destini del regno. Questo giovane prete troverà rifugio in Francia, ritornando sotto mentite spoglie solo nel 1805, con Napoleone imperatore e con un Regno (quello di Napoli) che stava per cambiare dinastia.
Il tempo si sa, è la miglior medicina, e gli indulti reali, sempre più generali e sempre più ampi, agevolarono il ritorno del nostro concittadino alla vita frenetica e irrequieta a cui era abituato. Riprese gli studi di grammatica e drammaturgia, riaprendo la scuola pubblica, senza tralasciare lo studio dell’organo, di cui ha lasciato alcune composizioni. Continuò, soprattutto a propugnare le sue idee, divenne naturalmente carbonaro e Maestro Venerabile della Loggia Massonica Montecalvese, che lontana dall’anticlericalismo, si connotò di uno spirito diverso, tant’è che si ascrive a questo periodo il portale del Palazzo Stiscia, ricco di fregi massonici, in aperta sfida al potere costituito e forse come segnale di una visione nuova del mondo, in un sano equilibrio collaborativo tra lo Stato e la Chiesa.(cfr. Vincenzo Gioberti). Ritroviamo Don Domenico, protagonista nei moti del ’21, con quel Morelli e con con quel Generale Pepe, legati alla storia di questo nostro paesello, per poi rivederlo presente e operante nel ’49, artefice nella Repubblica Romana, per i cui meriti (?), fu nominato segretario di camera di S.S. Pio IX.
Come accennato, di lì a pochi anni Napoleone, a capo di un fortissimo esercito, sbaragliò le monarchie assolute europee, portando i semi della libertà della rivoluzione francese. Il Re Borbone cercò di frenare il popolo, per frenare Napoleone, pensando così di salvarsi da una nuova invasione. Ma allorché il Corso divenne Imperatore, si capì che Napoli sarebbe ridiventata francese. Nel 1806 infatti, l’esercito francese investì nuovamente il Regno, Ferdinando si rifugiò per la seconda volta in Sicilia [v. monografia “1806, l’esilio siciliano di Ferdinando III”, N.d.R.]. Prima Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat vennero incoronati Re di Napoli.
Con Murat, i repubblicani veraci, pur turandosi il naso, non disdegnarono la collaborazione. [Nativo]
La recente tendenza storiografica, a livello comprensoriale e provinciale, sembra più intenzionata ad alimentare un turismo predatorio e sensazionalistico, che a conservare e consultare le fonti, rischiando così di privare i nostri paesi di una serie innumerevoli di testimonianze, che invece andrebbero recuperate e trasmesse ai giovani studenti, consolidando ed alimentando la diga della nostra millenaria cultura, unica fonte all’arrembante aridità dell’uomo moderno. |
[Credit│Brigantino - Il Portale del Sud]