I Vitigni autoctoni Montecalvesi
Antonio Stiscia
[Ed. 00/05/2008] La tradizione vitivinicola di Montecalvo Irpino (dall’Unità d’Italia), si fonda sulla secolare e documentata presenza di vitigni di pregio (LIATICO) e da quelli di largo consumo (Turchenese- rosso e Picciolo di Bambino- bianco ).
La presenza di appositi e speciali contratti di Affitto di Vigne, (dove venivano numerate, segnate e specificate le piante, con la individuazione del tipo e del modo di coltivarle), la dicono lunga sulla particolarità quasi maniacale di questi contratti, dove sovente si ricorre a formule che si ritrovano naturalmente più negli affidi familiari che non in tipologie di contratti agrari.
Il Liatico re dei vini, assume una importanza straordinaria, specie per la sua lavorazione, di cui si specificano i processi produttivi e conservativi, la resa, la qualità e il carico delle fecce.
Sembra strano, ma dalla lettura di questi contratti, rogitati da notai e debitamente registrati viene fuori uno spaccato di esperti enologi e una certa enomania, per certi versi inaspettata, ma che dimostra del come la cultura della vite, sia strettamente legata ad un territorio collinare povero, ma con nicchie produttive di eccellenza.
La capacità di adattamento dei vitigni e la loro caratterizzazione, frutto dell’evoluzione, rende autoctoni alcuni tipi di vitigni la cui etimologia può aiutarci ad identificarne l’origine o almeno le caratteristiche visive ed organolettiche.
Il termine Liatico è comune per tutto l’ottocento e fino al Ventesimo secolo, dove per una certa evoluzione o astrazione, si può essere trasformato in Aglianico, ma la certezza dei dati ci impone di conservare le tipologie originarie, rischiando di compiere un falso o peggio un’alterazione, da evitare sempre, e specialmente quando si parla di vino. Il Liatico, vino rosso di qualità, veniva coltivato principalmente “a dritta” cioè con una costante esposizione a mezzogiorno, in terreni assolati per l’intero arco della giornata, accliviati e di natura arenarica. La località perfetta a tale coltivazione era la C/da Magliano, e il cui toponimo potrebbe dirla lunga sulla qualità delle superfici, quasi tutte a Vigneto e a Liatico, per cui potrebbe pensarsi alla parallela evoluzione:
Liatico-aliatico-aglianico / Aglianico- agliano-magliano.
Nel mentre sull’aglianico si è già scritto, e a ragion dovuta, in realtà dove il vitigno ha una conclamata valenza e proliferazione, è sembrato giusto parlarne per far comprendere di come e da secoli viene considerato un vino di qualità superiore. Se è vero e dimostrabile che il vino di qualità non nasce a caso, è pur vero però che alcuni vitigni hanno pretese minori, sebbene di qualità eccellente, votati alla produzione di vinelli di largo consumo, vini che allietano la tavola e che per il basso tasso alcolico si prestano ad una degustazione generalizzata e mai alterativa degli equilibri psico-fisici,conferendo la naturale ebbrezza dei vini dell’antichità. Stiamo parlando del Turchenese (turchinese),un rosso rubino di non eccessiva gradazione alcolica (11 % a salire)leggermente frizzantino,con un retrogusto di profumo di rosa canina e una gradevole asprezza da raspo d’uva.
Un vinello che conserva una costante freschezza e che va consumato entro l’anno di produzione. Il Turchenese,era il vino promozionale di tutte le locande e osterie del paese,in quanto la bassa gradazione ne consentiva una copiosa vendita e quindi maggiori ricavi. Il termine Turchenese è una costante nell’economia agricola montecalvese,in quanto anche per un tipo di grano e di farina si parla di Saragolla Turchesca. Non sappiamo se esistono collegamenti geografici con la Turchia o ancor meglio con il medio oriente,dovendo intendersi per Turchi e/o turchesche tutte le popolazioni soggette all’impero ottomano e affacciantesi sul mediterraneo,o popolazioni arabe legate all’ Islam. Una cultura che ritroviamo presente nei portali Montecalvesi,in alcuni termini del dialetto,nella cucina e nei reperti di ceramica(protomaiolica araba) provenienti dal territorio e dagli scavi del Castello Ducale Pignatelli di Montecalvo,dai quali si ha conferma della presenza tra le mura di una guarnigione di soldati arabi al soldo di Federico II di Svevia. Il dato etimologico ha la sua indiscussa importanza e non è improbabile che almeno originariamente alcuni semi di vitigno ,siano giunti in queste nostre contrade, insieme a chicchi di quel grano che per la qualità e la resa aveva fatto della Sicilia e dei paesi nord africani i granai dell’impero romano e delle civiltà succedutesi,specie l’ottomana. La particolarità della coltivazione della vite,specie del Turchenese,ha avuto una lenta evoluzione. Nelle antiche carte, le viti venivano fatte crescere in altezza e ad una buona distanza,per consentirne l’ottimale areazione e una maggiore esposizione al sole,in macro filari posti orizzontalmente e a terrazze, a seguire l’andamento del sole, come se fossero delle superfici eno-voltaiche.
Per il Picciolo di Bambino, il discorso è completamente diverso,per la scarsa importanza dei bianchi,che avevano una funzione diversa e non erano votati al consumo . Il Picciolo di Bambino deve il nome al fatto che il chicco dorato e tondeggiante,molto dolce,presenta un peduncolo,residuo dell’inflorescenza e impollinazione,che cade definitivamente con la vendemmia dei grappoli. La presenza di questo peduncolo,ne ha contraddistinto il nome,anche per il malizioso accostamento al sesso del bambino e all’incolorazione dell’orina ,chiamata pipì degli angeli. La scarsa forza alcolica ,faceva si che le uve fossero usate per stemperare il colore dei vini rossi e per addolcirne la forza,specie del Liatico, conferendo una profumazione intensa,propria dei bianchi. Il vino da Picciolo di Bambino,aveva scarsissima produzione,e una parte veniva imbottigliata appositamente per le funzioni religiose. Col tempo e a metà ottocento si invalse la moda di conservare il vino bianco a cui era stata arrestata la cosiddetta cottura,la nascita delle bottiglie di vetro spesso e scuro,consentirà la conservazione del così detto Vino alla cruda, le cui tecniche si sono affinate nel tempo,con sistemi di lavorazione e imbottigliamento,segretati da generazioni di amanti del buon bere.
Col passare dei decenni e per le mutate condizioni climatiche,i filari dei vigneti vennero sempre più abbassati per ritornare quasi a livello del terreno,come era agli albori e come avveniva nelle coltivazioni isolane,dove per la fastidiosa presenza del forte vento,si era costretti a riparare le superfici vitate con pietre e con muri a secco. Il mutato andamento climatico,fece abbassare le viti,ne favorì il raggruppamento per autotutelarsi e comportò la piantagione di filari di alberi frangivento (olmo e cerro).
La disposizione dei filari seguì la direzione del vento ,per assicurare una buona areazione e per limitare l’attacco dei parassiti e per la vicinanza ai terreni,si provvide alla messa a dimora al limitare dei filari,di piante di rosa antica,di colore bianco e rosa,per segnalare anzitempo la presenza di parassiti e funghi,per attirare gli insetti buoni(Api) che oltre a impollinare le rose favorivano l’impollinazione dei fiori della vite,conferendo un gradevole profumo di rosa. A questo punto della lettura,si è un po’ seccata la gola e per addolcire la secchezza delle fauci,si può bere un buon bicchiere di vinello turchenese,con un cucchiaino di miele o meglio ancora ,un dito di vin cotto ,diluito in un bicchiere di acqua fresca.
Prosit! [Nativo]