Cultura,  Cultura orale

LI DITTI ANTICHI NUN FALLISCINU MAI (I detti antichi non falliscono mai)

Mario Corcetto

La presente raccolta riunisce 418 proverbi in vernacolo montecalvese, non proverbi “montecalvesi”, perché certamente non tutte le massime raccolte sono state coniate a Montecalvo, anche se comunemente usate nel quotidiano. Larghissima parte di esse credo provenga da paesi e popoli vicini, con cui i montecalvesi hanno interagito in passato. Sono entrati a far parte della nostra tradizione, oserei dire ammesse, non prima di avere subito una sagace selezione da parte dei nostri padri che, in quanto ad acume, non li si può ritenere secondi a nessuno. Nel raccoglierli, ho cercato, con rigore metodologico, di tenermi lontano da ogni contaminazione esterna, dovuta ai contatti con persone provenienti da tutt’Italia, che avrebbe potuto compromettere il lavoro di recupero sperato. Per questo motivo, ho trascritto soltanto quei proverbi che sono assolutamente certo di aver sentito dire a Montecalvo.

E’ stato per me divertente scavare nei miei ricordi ed annotare, man mano che mi sovvenivano, queste massime che, se ne può convenire, sono delle vere e proprie perle di saggezza. Esse, con poche parole, riescono a sintetizzare giudizi, dettami o consigli che derivano da esperienze comuni di vita vissuta. Si tratta di confortanti pensieri di verità, capaci di esorcizzare paure, preoccupazioni ed incertezze, fornendo una chiave di lettura dei fatti umani, stemperandone a volte la gravità con la mera testimonianza del già vissuto. Quasi una sorta di nobilitazione dei fatti ordinari e delle miserie, che possono così assurgere a “cultura”. Li potremmo definire delle istantanee di esperienze, capaci di immortalare un sentire piuttosto che un vedere! Sono tutti belli. Alcuni li ho trovati esilaranti, come la pretestuosa condizione de “Lu mijézzu puórcu miju lu vogliu vivu” (Il mio mezzo maiale lo voglio vivo), altri amari, altri poetici… qualcuno forse un po’ scurrile. Ma tutti profondi e capaci di esprimere e tramandare il sapere popolare meglio di qualsiasi trattato. Oltre ad evidenziare una spesso misconosciuta nobiltà d’animo del popolo montecalvese: “A la casa di lu pizzente nu’mmanchino maj li tozzira” (Nella casa del povero non mancano mai i tozzi di pane): per dire che il povero, più che il ricco, sa essere disponibile verso chi è nel bisogno.

Molti li ho “testati” fuori sede! Ricordo di aver sollecitato una pratica ad un collega di Trento, apostrofandolo dicendo che “La cera si cunzuma e la prucissione nu’cammìna” (La cera si consuma e la processione non cammina). Ai miei diretti collaboratori dicevo spesso: “Ti sacciu piru a la vigna mija” (Ti conosco pero alla mia vigna) per richiamare coi piedi per terra chi tendeva a sopravvalutarsi. Ad un collega che si era venuto a sfogare per l’incauto acquisto di una macchina usata, rivelatasi una fregatura, dissi che: “Lu ciucciu viécchju a la casa di lu fessa móre” (L’asino vecchio in casa del fesso muore). Debbo dire che hanno tutti centrato l’obiettivo! Ho sempre strappato un sorriso ed ottenuto l’effetto sperato.

Citandoli, non ho fatto altro che esportare saggezza, non mia certamente, ma dei nostri avi.

Questi proverbi, spesso in metafora, talvolta in rima, hanno tutti la caratteristica di non stigmatizzare comportamenti, quanto di tesaurizzare le esperienze per evitare che si ripetano gli errori commessi.

A volte, cercano di aiutare ad accettare ed a metabolizzare la condizione di vinti, a cui fatti e circostanze hanno condannato gli umili: “Andó sta lu Papa ddra ja Roma” (Dov’è il Papa lì è Roma)  altro non è che un amaro tentativo di autoconsolazione da parte di chi è costretto a vivere lontano dal suo mondo.

Mai l’umile è deriso, è solo trattato con comprensione e benevolenza. Veramente viene condannato il fatto, piuttosto che l’attore. Tutt’al più si potrebbe cogliere in essi qualche velata presa in giro dei “Don Ferrante” nostrani, eroi e martiri della dottrina inutile, ridicolizzati per la loro pochezza e per gli immeritati privilegi sociali estorti: “Aji fattu buonu ch’ai parlatu ‘ngenuo quisti so cafuni di fore e nun comprendunu” (hai  fatto  bene  a  parlare  in  gergo,  questi  sono  cafoni  di  campagna  e  non comprendono) non è un vero adagio, ma ben rimarca, fuori contesto, che pur non conoscendo la traduzione letterale del “latinorum” opposto, l’umile riconosceva il sottile tentativo di fregarlo. Oppure, Chi fatìja magna e chi nun fatija magna e bbéve (chi lavora mangia e chi non lavora mangia e beve): si può ritenerlo rivolto a chi vivendo di furbizie riusciva a sbarcare il lunario meglio di chi lavorava sodo. Ma non lo si può ritenere estraneo neanche a chi, pur non conoscendo la fatica fisica, si concedeva agi e lussi che derivavano dal sudore altrui.

Lo scopo di questa antologia popolare è quello di preservare dall’oblio, fissandoli sulla carta, questi adagi, nella considerazione che, secondo me a buon titolo, essi potrebbero definirsi un piccolo patrimonio culturale. Operazione necessaria, spero non tardiva, visto che già ora si percepisce la nostra cultura contadina molto sfumata tra i nostri giovani concittadini, che hanno ricevuto una infedele ed incompleta trasmissione delle cognizioni e degli usi dei nostri padri, complice la miope presa di distanza della classe sociale dominate, soprattutto, per quanto mi consta, quella degli anni 60/70 del secolo scorso, a volte offuscata da un perbenismo sciocco. Indubbiamente, non avrebbe avuto senso ostinarsi nella difesa identitaria ad oltranza: il processo di integrazione nazionale doveva progredire e, si sa, l’integrazione passa principalmente attraverso l’idioma e la maturazione di un sentire comune. In questo senso, potrebbe essere stato un bene la ferma disapprovazione verso chi deliberatamente continuava a comunicare soltanto in dialetto e difendeva usanze e comportamenti diventati anacronistici per l’evolvere del costume. Tuttavia, credo che sia  mancata  la  saggezza  di  preservare  un  po’ della  nostra  identità  etnica,  che, emendata degli aspetti più grezzi, avrebbe potuto sommarsi al nuovo, piuttosto che cedergli sbrigativamente il passo.

La cultura, la parlata, il costume forse avrebbero dovuto beneficiare della stessa indulgenza usata nei confronti delle arti culinarie: dei “cicatielli”, ad esempio, se ne è ingentilito il nome, ma si continuano a gustare ora come allora!

Io personalmente devo dire di avere avuto la fortuna, che solo ora riconosco tale, di essere stato cresciuto dai miei nonni (nel cui guardaroba, in verità, non ho mai rinvenuto traccia di quei nastri rossi e gialli di cui si cingono i figuranti maschi del gruppo folk!), da cui ho fatto in tempo ad assorbire, di prima mano, tanto del loro sapere. Evitando il depauperamento che un salto generazionale avrebbe comportato. Sì da poter assurgere ora, visto come sono andate le cose, a portatore, indegno e approssimativo, di altre conoscenze, capace di incuriosire e sorprendere finanche i miei coetanei!

Conforta, ad onor del vero, vedere che non pochi sono i tentativi di recupero del dialetto,  degli  usi  e  delle  tradizioni  e,  finalmente,  si  è  trovato  il  coraggio  di riconoscere per buone le tante cognizioni esperienziali che possono, a buon titolo, trovare posto nella nostra morale, nella nostra spiritualità, nel nostro gusto estetico, nella consapevolezza di noi stessi e del nostro mondo – salvo qualche maldestro scivolone di cui prima ho citato un esempio, in relazione al costume maschile del gruppo folk.

La difficoltà maggiore nel curare questa raccolta, non è stata tanto ricordare i detti (mi venivano uno dietro l’altro, con grande mia meraviglia: non avrei mai sospettato di averne ritenuti così tanti!) quanto scriverli in dialetto. Per fortuna ho avuto come riferimento l’opera di studio, recupero e ricostruzione linguistica e fonetica del Prof. Angelo   SICILIANO,   il   quale   ha   saputo   trovare   gli   strumenti   efficaci   per rappresentare graficamente suoni a noi familiari. Dove mi è mancato il soccorso ho provato a modulare le accentature sperando di rendere al meglio quello che avevo in mente. So di poter confidare nell’indulgenza di eventuali lettori. In un caso, strano a credersi, ho avuto difficoltà a trovare la parola corrispondente in italiano (virneja e stateja) e ho dovuto arrendermi ricorrendo al virgolettato. Per ogni proverbio ho azzardato una interpretazione. Che rimane la mia interpretazione! D’altronde, trattandosi di concentrati di saggezza, ognuno vi potrà trovare tanti altri significati e sostituire o integrare quelli da me proposti. Spero di contagiare più montecalvesi possibile e che questo rimanga un lavoro aperto al contributo di tutti. L’auspicio è che ogni giovane montecalvese che avrà modo di leggerli ne ritenga almeno uno, con l’impegno di tramandarlo ai suoi figli, così da poter continuare a dire che: “L’ashcula s’assimeglja a lu ciòcchiru”(la scheggia assomiglia al ciocco).

Spectrum audio visualization for Wordpress



 




*I proverbi nelle tracce audio sono recitati dal cantore Alberto Tedesco.

Un commento

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *