-
PERCHÉ STUDIARE L’IRPINIA?
Stephanie Longo
[Ed. 13/08/2003] Ecco la domanda che mi si faceva quasi ogni giorno per gli ultimi due anni. All’inizio di questa ricerca non sapevo veramente cosa rispondere e, di solito, la mia risposta era “Perché voglio studiarla”. Poi le domande hanno cominciato a richiedere risposte più dettagliate…. “Sig.na Longo, con tutti gli altri campi dell’italianistica e tutte le altre zone dell’Italia più meritevoli di uno studio, perché scegliere di fare un’analisi sulla letteratura proveniente dall’Irpinia?” Ovviamente dovevo lottare per il tema che ho scelto di analizzare molti mesi prima della vera presentazione della mia ricerca.
Riflettendo un po’, posso capire perché la mia scelta dell’Irpinia come oggetto della mia ricerca non era ben accettata. Il Mezzogiorno d’Italia non è una zona spesso studiata qui in America e, perciò, non si conoscono bene i fatti. Nell’immaginazione collettiva americana, il Meridione di oggi è ancora come quello sottosviluppato e contadinesco trovato in “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi anche se quel libro è stato scritto più di 50 anni fa! Un’italianista definita meridionalista come me non studia il cosiddetto “problema meridionale” o altri “problemi” della zona; lei studia, invece, la storia, la cultura o la letteratura della zona—insomma studia tutto quello che rende la zona speciale e meritevole di uno studio dettagliato. Ed il lavoro più importante di una meridionalista che lavora qui in America è di far sparire i vecchi stereotipi del Mezzogiorno che la mostrano come la zona sottosviluppata e contadinesca del libro di Levi. E questo è quello che ho cercato di fare ne “La modernizzazione dell’Irpinia vista attraverso la letteratura italiana pubblicata dopo il 1980.” -
I Giubilei e Montecalvo…i riti, gli avvenimenti e la memoria.
Angelo Siciliano
[Ed. 21/08/2000] Questa conferenza, a conclusione del programma predisposto dall’Assessorato alla cultura di Montecalvo, chiude le manifestazioni previste per le celebrazioni giubilari montecalvesi dedicate al nostro S. Pompilio Maria Pirrotti.
La parola giubileo, dalla bibbia, deriva dal termine ebraico “yôbêl” che vuol dire corno d’ariete. Questo era suonato nelle occasioni solenni: una di esse era l’ “anno del giubileo”. La legislazione ebraica prevedeva, ogni cinquanta anni, un anno particolare, in cui le terre erano restituite ai legittimi proprietari; il ciclo lavorativo ordinario era interrotto per consentire, grazie al maggese, il riposo dei terreni coltivati.; gli schiavi erano liberati e restituiti alle loro famiglie.
Insomma il giubileo imponeva l’attuazione di misure eccezionali che, stravolgendo la vita sociale del popolo, azzeravano le differenze tra ricchi e poveri, latifondisti e nullatenenti, uomini liberi e schiavi. Esso cercava di sanare gli squilibri che si erano consolidati nel cinquantennio precedente, prefigurando un modello di società ugualitario e solidale, in cui Dio era riconosciuto come unico signore.
Con la religione cattolica è stato papa Bonifacio VIII, nel 1300, ad introdurre l’ ”Anno santo” e nei secoli successivi la tradizione è stata conservata e tramandata.
L’ “Anno santo” del 2000 è il giubileo e il Vaticano ha predisposto un nutrito programma di pellegrinaggi, incontri, cerimonie, iniziative e celebrazioni anche spettacolari: circa due milioni di giovani sono confluiti a Roma in questi giorni, da tutto il mondo, per la Giornata mondiale della gioventù.
Il giubileo che è soprattutto un appello alla conversione, alla confessione, alla preghiera e alle attività caritative, in questo mondo diffusamente televisivizzato e globalizzato, appare come un avvenimento amplificato per fini di spettacolarizzazione, attraverso radio, tivù, internet e carta stampata. -
Chiesa S. Maria Assunta in Cielo
[Ed. 00/00/0000] Alla sommità del paese, attigua alla residenza dei duchi, si erge la chiesa più antica di Montecalvo: S. Maria Assunta in Cielo. Presumibilmente sorta sui ruderi di un antico tempio, dal 1300 ha sfidato tutte le catastrofi abbattutesi sul paese, per giungere a noi nella sua bellezza originaria, anche se sembra destinata ad un non felice rapporto con gli uomini e con il tempo.
Edificata intorno alla prima metà del XIV secolo, rappresenta un vero gioiello di stile dell’epoca.
L’ingresso della Chiesa è posto a circa due metri dal piano stradale, vi si accede attraverso una breve rampa di scala con una bella balaustra , su cui si evidenziano gli stemmi delle famiglie Gagliardi e Pignatelli.
La facciata si presenta con un portale ad arco cui si sovrappone una luna gotica, due finestre ai lati ed un rosone centrale.
L’interno è a tre navate diviso da pilastri costituiti da blocchi d’arenaria.
Nella navata destra è collocata la Cappella dei Carafa, a pianta ottagonale, con arco in arenaria sostenuto da due magnifiche colonne.
Fu fatta costruire da Giovan Battista Carafa, terzo Conte di Montecalvo, è rappresenta un vero gioiello d’arte cinquecentesca. Affiancata si trova la Cappella di San Felice Martire, patrono di Montecalvo, il cancello di ferro appartiene al XVII secolo e reca le insegne della famiglia Pignatelli.
In essa è collocata l’urna con i resti mortali di San Felice Martire, patrono di Montecalvo Irpino.
Da pochi anni è stata ripresa la tradizionale festa del Santo patrono, che si svolge il 31 Agosto.
La cappella accanto alla sacrestia è dedicata a S. Maria del Suffragio. Nella navata sinistra è situato un caratteristico fonte Battesimale del ‘500, formato da un sarcofago posto su colonne fregiate da capitelli corinzi. Nella nicchia sovrastante, si nota l’altare ligneo dedicato a San Rocco. La navata centrale termina con un Abside rettangolare, preceduta dall’Altare Maggiore voluta dal duca Pompeo Pignatelli nella seconda metà del XVII secolo. [Nativo]Redazione
[Bibliografia di riferimento]
[Cavalletti G.B.M. Montecalvo dalle pietre alla storia, Poligrafica Ruggiero, Avellino, 1987]
[AA.VV., Progetto Itinerari turistici Campania interna: la valle del Miscano, Volume 1 , P. Ruggiero, Avellino, 1993]
-
MUSEO DEI MESTIERI E DELLA CIVILTÀ CONTADINA
Angelo Siciliano
[Ed. 18/09/1989] La scomparsa di alcuni Mestieri, dovuta all’introduzione di nuovi strumenti di lavoro e tecnologie innovative, e della civiltà contadina arcaica, tramandataci da tradizioni secolari, ci impone una riflessione seria su quanto stiamo perdendo della nostra identità etnica e storica. La storia, giustamente, non può fermarsi; la memoria collettiva svanisce nell’arco di qualche generazione e attualmente non va ad alimentare più né miti né leggende.
Pertanto, diviene urgente e si pone l’idea di un MUSEO DEI MESTIERI E DELLA CIVILTÀ’ CONTADINA in Irpinia , perché la storia , certamente storia umile e oscura date le modeste condizioni di vita ,dei nostri padri riviva e sia tramandata alle nuove generazioni che si avviano ad avere come unico patrimonio i mass media.
PROMOTORI – Sono invitati ad accogliere e sviluppare questa “idea” i cittadini sensibili alla questione, le Associazioni culturali, i Comuni della zona.
MODALITÀ – In una prima fase, presso le sedi dei singoli Comuni andrebbe raccolto il materiale, esaurientemente schedato e descritto; in una fase successiva si potrà pensare e progettare l’allestimento di un museo unico per tutti i Comuni.
MATERIALE – Prodotti e strumenti di lavoro artigianale (possibilmente originali e non alterati) dei singoli mestieri (calzolaio, fabbro, maniscalco, carrozzaio, falegname, secchiaio, cestaio, sarto, barbiere, mugnaio, sellaio, ceramista, s arrotino, fotografo, ecc.);
Strumenti e utensili adoperati in agricoltura compresi quelli dei boscaioli e carbonai, con un’attenzione particolare ai tipi di colture praticate;Fotografie di tutto ciò che é intrasportabile: mulini, quartieri popolari, grotte e altre tipologie abitative quali pagliai, casini, masserie, ecc. Non dovrebbero esservi limiti di tempo per quanto concerne l’epoca di riferimento della ricerca del materiale in questione; ma anche reperti preistorici o comunque delle epoche romana e successive sarebbero ben accetti. Tutto il materiale raccolto, datato, deve offrire la possibilità di in utilizzo a livello scientifico, anche per studi etnografici sulle condizioni socio-economiche della popolazione locale, oltre che sulle tecniche produttive e organizzazione del lavoro adottate. A parte, si ritiene fondamentale una ricerca etno-linguistica (dialetti dei vari paesi) che contribuisca a un approfondimento in senso antropologico dell’area irpina, perché le parole hanno sempre un collegamento con le cose. [Nativo]
-
LA MALVIZZA – INTRODUZIONE
Mario Sorrentino
La Transumanza, le Bolle, il Grano
[Ed. 00/00/0000] Nell’introdurre questa parte prima, e di riflesso l’intero scritto con il quale Alfonso Caccese ed io abbiamo voluto tracciare in grandi linee la storia della contrada Malvizza del nostro paese, sento di dover chiedere scusa di una libertà che sto per prendermi. Sta di fatto che mi servirò come Incipit di un testo il quale per certi versi contrasta con lo stile ed il taglio formale che di solito si adoperano in scritti di genere storico.
Stiamo, in effetti, perseguendo un progetto graduale con cui vogliamo valorizzare di volta in volta una contrada del nostro paese [1], mettendo in rilievo e divulgandone gli aspetti del passato che siano oggi ancora validi e, magari, fattori di arricchimento culturale e civile anzitutto della contrada, come pure dell’intera comunità paesana.
So che è molto difficile far provare ad un estraneo un qualche interesse verso certi luoghi fuori circuito, e, ancora di più far credere alla particolare suggestione che promana da essi, anche se gli abitanti del posto pensano che siano stati importanti, mettiamo, anche per la storia dell’intero Paese. Perciò, io ho pensato, meglio, mi sono sentito costretto a ricorrere ad uno stratagemma per dare una buona scossa agli indifferenti, anche a costo di passare per immodesto: riportare proprio all’inizio uno scritto che potrebbe essere ritenuto di taglio incongruo perché para-letterario. Si tratta, in breve, di un sogno ad occhi aperti [2] da me fatto nel visitare il sito archeologico di Aequum Tuticum, il quale si trova vicino ma, per la verità, al di fuori del confine amministrativo della nostra contrada Malvizza; anche se, è ovvio sottolinearlo, Aequum Tuticum era un tempo un punto di irraggiamento politico – culturale non soltanto per la nostra contrada ma anche per un vastissimo territorio, essendo probabilmente stata quella città una delle diverse capitali federali del Sannio antico.[3]
-
AMORE ROMANTICO AL TRAPPETO
Mario Sorrentino
[Ed. 21/06/2008] Redatta la scheda informativa precedente per motivi di copyright, mi piace presentare un altro brano del romanzo di Louis A. De Furia, con la speranza di fare cosa gradita agli amici di Irpino.it . Vi si narra di un colpo di fulmine scoppiato giù al Trappeto, verso la metà del XIX sec. tra il mio bisnonno da parte materna Placido De Furia, originario di Ariano, e una bella ragazza del Trappeto, Anna Di Florio, figlia di Antonio, destinata a diventare poco dopo mia bisnonna.
L’ambiente umano del racconto non riguarda la classe dei contadini, che costituiva la stragrande maggioranza degli abitanti del Trappeto, ma quella dei piccoli commercianti e degli artigiani (i masti), spesso imparentata con la precedente, anche se, detto senza nascondere ipocritamente la verità, da quella classe bistrattata gli altri prendevano le distanze. Nel brano questa verità viene un po’ nascosta dalla ricostruzione fatta in ambiente di emigrazione, in cui si è sempre stati portati, per ragioni ben note, a vantare origini non umili, spesso edulcorandole alquanto. Quanti emigrati di seconda e terza generazione, in America o in altri paesi, ammettono tranquillamente che i propri ascendenti scapparono dai paesi di origine perché morivano di fame?
Agli amici del Forum che rivendicano con orgoglio l’origine trappetara, dico che anch’io ho un legame con quel nostro sventurato quartiere, oltre che per motivi di attrazione estetica e di interesse per la nostra cultura tradizionale più autentica, anche per un legame di ascendenza familiare che ho scoperto di avere soltanto leggendo il romanzo del cugino Louis De Furia.
Informo inoltre che i brani tradotti in precedenza sono reperibili con ricerca libera in “Cultura e Tradizioni” del precedente sito di “Irpino.it”, curato da Alfonso Caccese.“Una fredda mattina ventosa, sotto un cielo coperto, Minguccio Tedesco e il suo apprendista scendevano per Via Monte con destinazione il Trappeto. C’è da scommettere che avrebbero preferito entrambi restarsene a casa al caldo. Camminavano in silenzio, tenendosi strettamente avvolti i vestiti addosso, per ripararsi dal vento che s’infilava ululando tra i palazzi ornati di stucco. Camminavano in fretta rasente ai muri, cercando di trovare un po’ di protezione dal vento pungente. Le folate divennero più insopportabili e Minguccio si ravvolse meglio che poté nel largo mantello di lana, tirandoselo davanti alla faccia…
-
Louis A. De Furia
Louis A. De Furia era nato a Newark (New Jersey, USA), nel 1928. Figlio di Alfonso – un emigrato di origine montecalvese – era editore della rivista New Jersey Music & Art Magazine, proprietario della galleria d’arte Galt’s, a Chatham (N.J.), e scrittore. Due dei suoi libri trattano di ricordi e storie di famiglia, sullo sfondo più ampio della storia di due paesi irpini (Ariano e Montecalvo), alla fine del XIX e inizi del XX sec.
Nel primo, (Pop’s Page, 1994) si narrano l’arrivo e i primi anni della famiglia De Furia in America. Nel secondo, (The Road from Ariano, 2002) l’autore rivolge lo sguardo verso la terra d’origine della famiglia, rielaborando i ricordi del padre Alfonso, giunto in America diciottenne per ricongiungersi ai fratelli e alle sorelle partiti prima di lui. Questi due libri hanno avuto circolazione all’interno della comunità di origine italiana del New Jersey, con echi sulla stampa locale.
Dal secondo libro sono stati estratti e tradotti in italiano, con il consenso dell’autore, alcuni brani a cura di M. Sorrentino. I brani furono presentati pubblicamente mediante lettura e recitazione, nella saletta delle conferenze di San Pompilio M. Pirrotti di Montecalvo, il 3 novembre 2002. Sorrentino curò anche la distribuzione agli intervenuti degli estratti raccolti in un opuscolo. Louis A. De Furia è morto il 26 settembre 2003, nella sua casa di Livingston (New Jersey)
[Credit│Foto - Mario Sorrentino]
Redazione
-
IL VINO E IL GRANO
A questa poesia, il 18 maggio 2003, è stato assegnato il
1° PREMIO per la Sezione a tema libero in lingua italiana, al 4°Concorso di poesia
“INCONTRI VALLE DEI LAGHI 2003”, Padergnone (TN).Angelo Siciliano
IL VINO E IL GRANO
Rammento il colore del grano.
Ci fu concesso di familiarizzare
col biondo di rena sulle colline
i rosolacci i rari fiordalisi
le perle di sudore dei mietitori
le tante dicerie sulle ragazze
il fiasco di vino fresco di cantina
passato di mano in mano
ridendo da bocca a bocca
pieno e d’improvviso vuoto
di linfa di vite e di terra
a fare brio e dare forza
il falcetto di affilati denti
ad ingannare le janare*
nelle notti di plenilunio.
Torna la civiltà biologica
paesaggi curati nei dettagli
il bello involontario dell’eden
al pettine delle braccia
filari di viti coi grappoli doc
il turismo enogastronomico.
Erbicidi non hanno inaridito
la memoria ai nonni ma i loro
curiosi aneddoti s’imbattono
spesso in tappati orecchi.
Chissà, un tacito rifiuto forse
al ricircolo delle parole.La critica di Italo Bonassi
Molto bella, moderna e simpatica questa poesia di sapore bucolico, in un inno dedicato alla natura, che prorompe nei versi col colore del grano, con i rosolacci ( detti volgarmente papaveri ) che arrossano i campi, con gli azzurri fiordalisi, con la sapiente fatica dei mietitori allietata dal vino fresco di cantina. Ma, in questo contesto squisitamente agreste, in questa poetica immagine che ci ricorda Virgilio con le sue magnifiche Georgiche, s’innesta il dolceamaro progresso della civiltà biologica, con i suoi risvolti artificiali di paesaggi curati con sapiente ma anche innaturale ordine dall’uomo, con le mietifalciatrici, con i trattori, con i filari regolari quasi geometrici, coi vigneti dove l’erba è sacrificata al diserbante, col gaio. festante ma anche vociante e rumoroso turismo enogastronomico. E il pensiero del poeta corre ai tempi ormai lontani in cui i nonni zappavano con santa pazienza tra le vigne un’erba che subito dopo ritornava prepotente a ributtare.Tempi belli? Mah…Forse per noi, che non conosciamo la fatica dei campi, che vediamo l’immagine poetica dei papaveri e dei fiordalisi, che fanno invece disperare il contadino. E il poeta lo sa, ma continua a sognare una natura più natura, anche se si rende conto che l’uomo ha le sue esigenze, che non sempre coincidono con quelle del suo ambiente. [Nativo]
-
Le Janare
Angelo Siciliano
[Ed. 15/04/2002] Donne giovani, belle e intriganti nate nella notte di Natale. S’introducevano nelle case di notte, attraverso le fessure delle porte chiuse, per fare malie e dispetti a coloro che stavano dormendo. L’antidoto era il sale che si cospargeva all’interno di porte, finestre e balconi. Un diversivo era rappresentato da scope di saggina e falcetti che, collocati dietro le porte, distraevano le janare, una volta entrate, impegnandole, per un’intera notte, nel conteggio dei fili della scopa o dei dentini della falce. Prima che sorgesse il sole, però, erano obbligate a fare rientro alla propria dimora, perché erano nude. Probabilmente dal latino janua, porta, esse rappresentano l’equivalente delle streghe, ma di queste in genere si pensa che siano vecchie e repellenti. [Nativo]
-
I Vitigni autoctoni Montecalvesi
Antonio Stiscia
[Ed. 00/05/2008] La tradizione vitivinicola di Montecalvo Irpino (dall’Unità d’Italia), si fonda sulla secolare e documentata presenza di vitigni di pregio (LIATICO) e da quelli di largo consumo (Turchenese- rosso e Picciolo di Bambino- bianco ).
La presenza di appositi e speciali contratti di Affitto di Vigne, (dove venivano numerate, segnate e specificate le piante, con la individuazione del tipo e del modo di coltivarle), la dicono lunga sulla particolarità quasi maniacale di questi contratti, dove sovente si ricorre a formule che si ritrovano naturalmente più negli affidi familiari che non in tipologie di contratti agrari.
Il Liatico re dei vini, assume una importanza straordinaria, specie per la sua lavorazione, di cui si specificano i processi produttivi e conservativi, la resa, la qualità e il carico delle fecce.
Sembra strano, ma dalla lettura di questi contratti, rogitati da notai e debitamente registrati viene fuori uno spaccato di esperti enologi e una certa enomania, per certi versi inaspettata, ma che dimostra del come la cultura della vite, sia strettamente legata ad un territorio collinare povero, ma con nicchie produttive di eccellenza.
La capacità di adattamento dei vitigni e la loro caratterizzazione, frutto dell’evoluzione, rende autoctoni alcuni tipi di vitigni la cui etimologia può aiutarci ad identificarne l’origine o almeno le caratteristiche visive ed organolettiche.
Il termine Liatico è comune per tutto l’ottocento e fino al Ventesimo secolo, dove per una certa evoluzione o astrazione, si può essere trasformato in Aglianico, ma la certezza dei dati ci impone di conservare le tipologie originarie, rischiando di compiere un falso o peggio un’alterazione, da evitare sempre, e specialmente quando si parla di vino. Il Liatico, vino rosso di qualità, veniva coltivato principalmente “a dritta” cioè con una costante esposizione a mezzogiorno, in terreni assolati per l’intero arco della giornata, accliviati e di natura arenarica. La località perfetta a tale coltivazione era la C/da Magliano, e il cui toponimo potrebbe dirla lunga sulla qualità delle superfici, quasi tutte a Vigneto e a Liatico, per cui potrebbe pensarsi alla parallela evoluzione:
Liatico-aliatico-aglianico / Aglianico- agliano-magliano.Nel mentre sull’aglianico si è già scritto, e a ragion dovuta, in realtà dove il vitigno ha una conclamata valenza e proliferazione, è sembrato giusto parlarne per far comprendere di come e da secoli viene considerato un vino di qualità superiore. Se è vero e dimostrabile che il vino di qualità non nasce a caso, è pur vero però che alcuni vitigni hanno pretese minori, sebbene di qualità eccellente, votati alla produzione di vinelli di largo consumo, vini che allietano la tavola e che per il basso tasso alcolico si prestano ad una degustazione generalizzata e mai alterativa degli equilibri psico-fisici,conferendo la naturale ebbrezza dei vini dell’antichità. Stiamo parlando del Turchenese (turchinese),un rosso rubino di non eccessiva gradazione alcolica (11 % a salire)leggermente frizzantino,con un retrogusto di profumo di rosa canina e una gradevole asprezza da raspo d’uva.